Voltando le spalle agli astratti furori

01
Nov

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali… Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furono in qualche modo per il genere umano perduto… Non vi era altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte… La vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era terribile: la quiete della non speranza”.

Sto varcando lo stretto di Messina e, come ormai mi è di abitudine, sto leggendo qualcosa che abbia attinenza con il luogo dove sto approdando, un modo per “entrare”, per diventare parte viva di quel posto, magari per pochi giorni, dialogando con scrittori, artisti, pensatori locali, che diventano per l’occasione le mie guide privilegiate. Mi sta accompagnando adesso Elio Vittorini, siracusano di nascita, mente critica, lucida e dissonante nelle accese dispute sociali, culturali e politiche del secondo dopoguerra e sto rileggendo dopo tanti anni un suo romanzo, Conversazione in Sicilia, scritto in anni difficili, fra il 1937-38, testo che ho molto amato al tempo degli studi universitari e dei miei concorsi per l’insegnamento. Il protagonista-narratore, trasferitosi da tempo in una grande città del nord, confuso dal suo stesso vuoto intellettualismo (gli astratti furori), sconvolto dalla realtà che lo circonda (i massacri sui manifesti dei giornali: riferimento alla sanguinosa guerra civile spagnola) e dalla sua stessa fragilità interiore (la pioggia che si infiltra nelle scarpe rotte) decide di tornare per alcuni giorni nella sua terra d’origine, la Sicilia presso la madre, Concezione, per cercar di ritrovare le fondamenta smarrite del suo essere, su cui tentare di costruirsi un nuovo baricentro. Sul traghetto che lo porta da Villa San Giovanni a Messina, incontra un “piccolo siciliano disperato” con una “moglie bambina, seduta su un sacco, ai piedi, che gli offre delle arance, l’unica ricchezza che ha. “Aveva un paniere ai suoi piedi, coperto da un pezzo di tela incerata, cacciò la mano sotto e mise fuori un’arancia. Non era grande, né molto bella, ma era un’arancia e silenziosamente egli l’offrì alla moglie bambina. La bambina guardò me, io vidi i suoi occhi scuri dentro il cappuccio dello scialle stretto per il freddo e poi la vidi scuotere il capo. Il piccolo siciliano parve disperato… le dita bagnate di sugo d’arancia nel freddo”.

Chissà se Vittorini nel descrivere la sposa bambina aveva in mente l’Annunziata di Antonello da Messina, con il perfetto ovale del volto assorto in un’indefinibile interiorità, gli stessi occhi scuri e pensierosi e la stessa mantellina che incornicia quel viso così femminile e così inconfondibilmente siciliano! Leggo queste righe e, mentre sempre più nitida si avvicina la Madonnina del porto di Messina, mi salgono alla mente le parole dell’Evangelii gaudium: “La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve istaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà”. E mi pare che nell’incontro tra il viaggiatore e il piccolo disperato siciliano con la moglie bambina si possa materializzare bene lo scontro tra gli astratti furori di Vittorini e la realtà semplicemente di papa Francesco, così come l’ancora attualissima quiete della non speranza vissuta dal protagonista si pone agli antipodi di quel “realizzare opere di giustizia e carità” che solo ci permette di non “degenerare in intimismi… che non danno frutto” (EG 233).

E così, stimolata da queste riflessioni, la prima tappa del mio soggiorno a Siracusa è davanti alla casa natale di Elio Vittorini, dove, sotto la lapide, c’è sempre, anche se appassito, un garofano rosso, memoria del primo romanzo dello scrittore. Forse proprio da lì parte il protagonista per seguire la madre, levatrice e infermiera, per il “giro delle iniezioni”: “Vestita d’un cappotto nero, e con una grande borsa da levatrice infilata nel braccio, mi condusse nel freddo sole. È proprio nel ventre della Sicilia, a contatto con il dolore di tanta povera gente, colpita da malaria, da tisi, da malattie causate dalla miseria, che gli astratti furori si incarnano nel concreto male del mondo offeso, escono da quelli che papa Francesco chiama “gli idealismi e i nominalismi inefficaci che… non coinvolgono”. Sarà uno dei personaggi incontrati a dire: “Non soltanto per non rubare, per non uccidere, eccetera, e per essere un buon cittadino. Credo che l’uomo sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri, per cose vere da compiere”. Guarda caso, la mamma del protagonista ha nome Concezione, è ostetrica e infermiera: la forte valenza simbolica che viene dal concepire, dal far nascere e dal curare è affidata a una donna. È come se, nei tempi duri che Vittorini sta vivendo e che, proprio durante la scrittura di Conversazione in Sicilia faranno maturare in lui il rifiuto della logica autoritaria, violenta e misogina del fascismo, sia affidata proprio alla forza generatrice e ri-generatrice delle donne la speranza di una rinascita, gli “altri doveri e le cose vere da compiere”.

Nel mio vagabondare in Sicilia non posso non approdare a Palermo, la città dalle mille bellezze e dalle mille contraddizioni. Mi dirigo verso uno dei luoghi che sembra incarnarne meglio il volto bifronte: è un piccolo oratorio, nascosto fra l’antico quartiere della Kalsa e i vicoli del popolare mercato della Vucciria. È dedicato a San Lorenzo, fatto edificare nei primi anni del Seicento dai membri della Confraternita di San Francesco, che, vestiti di un saio di panno bianco, stretto alla vita con un cordone, raccattavano per strada i poveri morenti e i tanti morti ammazzati, dando loro dignitosa sepoltura. Anche le opere di misericordia più scomode qui trovano finalmente casa. Un piccolo vano rettangolare, dove, entrando, si rimane abbagliati dal bianco degli stucchi di un grande quanto poco conosciuto scultore palermitano, Giacomo Serpotta che, accanto a scene della vita di san Lorenzo e di san Francesco, raffigura, come un candido coro impegnato a cantare i canoni sacri di Monteverdi, una serie di allegoriche figure femminili, le più vicine alla specificità della confraternita. Ecco l’Elemosina, con il viso coperto perché non vuole far distinzione nelle offerte che dona, ecco la Pazienza, punzecchiata da un bimbetto dispettoso e volutamente incatenatasi per non abbandonare il suo posto, ecco l’Ospitalità a cui si rivolge un piccolo delizioso pellegrino e che, miracolosamente, ha il corno dell’abbondanza sempre pieno.

Il punto verso cui convergono le bianche figure è l’altare, dove la Parola si fa continuamente carne: è l’altare della Natività. E per dipingere la grande pala viene chiamato il pittore del “mondo offeso”, dei reietti dei vicoli, delle ombre e delle luci. Caravaggio approda in Sicilia negli ultimi anni della sua vita, come sempre ramingo e in fuga, e proprio nel piccolo Oratorio di San Lorenzo nel 1609 lascia una delle sue opere più emozionanti, una tela di quasi sei metri quadrati, dipinta in poco tempo, quasi con il presentimento dei pochi mesi di vita che gli restano. Il centro è sì il Bambino, ma quasi schiacciato a terra, con poca paglia e un candido panno che gli fanno da giaciglio. Le braccine sono quasi allargate e tutta la posizione sembra un lontano presagio della Croce. Eppure da quel visetto si sprigiona una luce che si irradia in tutto l’ambiente. Lo veglia la Mamma, che sembra non perdere un solo respiro, un solo movimento della sua creatura. È provata, Maria, semisdraiata, con il corpo abbandonato, lo sguardo affaticato ma consapevole, i capelli leggermente scomposti. Anche per lei il parto è stato faticoso e, per di più, avvenuto in condizioni disagiate, quasi di emergenza. Indossa una veste rosso squillante e sotto una camiciola bianca, che le lascia scoperta una spalla. Non si può non riflettere sul realismo di Caravaggio, al limite della provocazione. Attorno, lo sguardo mite del bue si associa all’adorazione di san Lorenzo, di San Francesco, di uno stanco pastore e di Giuseppe, giovane e biondo, che lascia in primo piano le gambe avvolte in calze attillate. Perfino l’angelo ha il volto di uno dei tanti “carusi” che è possibile incontrare per i vicoli di Palermo: ma il gesto deciso sembra voler gridare ovunque il suo annuncio. Tutto assume una dimensione quotidiana, domestica e popolare, un piccolo mondo offeso e rifiutato a cui però è affidata la Buona Novella, lontano abissalmente dalle zuccherine, raffinate raffigurazioni della Natività in cui l’Incarnazione, come scrive l’Evangelii Gaudium, si fa “cosmesi della verità”, non carne e sangue.

Un’opera del Caravaggio, la Natività, è stata rubata non si sa ancora quando all’Oratorio di san Lorenzo, in via dell’Immacolatella. Il valore della tela è inestimabile”. Così il giornalista Mauro de Mauro a titoli cubitali spara la notizia sul quotidiano palermitano L’Ora del 20 ottobre 1969. In piena notte, da un’apertura secondaria, segando senza rispetto la tela dalla cornice, mani tuttora sconosciute hanno staccato, arrotolato e caricato la Natività in un furgoncino Ape rapidamente scomparso nelle viuzze della Kalsa. Da allora il nulla, il silenzio, il vuoto. Destinazione ignota, esecutori ignoti, mandanti ignoti. O forse no. Sono certamente gli stessi che pochi mesi dopo, nel 1970, hanno fatto scomparire nel nulla, per sempre, Mauro de Mauro. “Lupara bianca” la chiamano. Il silenzio della voce, la dissoluzione anche del corpo per chi, con le sue inchieste, ha voluto sfidare la mafia.

Entro nell’Oratorio di San Lorenzo. So che qualcosa mi attende e sono emozionata. Là, dove fino a pochi mesi fa troneggiava, nuda e ferita, la cornice vuota adesso c’è la Natività. No, non è quella dipinta da Caravaggio, ma una copia ad altissima definizione a grandezza naturale, realizzata da un gruppo di amanti dell’arte e di nemici della mafia, che hanno voluto riempire quel buco doloroso e ridare voce all’annuncio dell’angelo. Così i bianchi stucchi del Serpotta possono riprendere a cantare i loro canoni. E Palermo può sperare… e attendere che Caravaggio – quello vero – ritorni.

Chiara Magaraggia

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