Educarci alla responsabilità e all’ascolto, al coraggio di farci provocare dalla vita superando l’indifferenza. Anche come Chiesa
Se penso alla mia infanzia, ricordo che un rimprovero ricorrente era di non rispondere alle osservazioni dei genitori e in genere dei grandi. Rispondere significava infatti mettere in questione quello che era stato detto, permettersi di controbattere, manifestare un’improntitudine niente affatto positiva. I buoni erano quelli che tacevano, non facevano commenti, sottostavano. E valeva in famiglia, a scuola, in parrocchia, in ogni ambiente. L’obbedienza era ancora una
virtù!
Responsabilità
In realtà, rispondere è fondamentale, se si vuole educare alla responsabilità. Altrimenti ci si defila e non si prende posizione, in un atteggiamento che non inquieta nessuno. È comodo, per i singoli e per le istituzioni, ma è segno di immaturità personale e di involuzione sociale. Si evitano confronti e conflitti, quindi è comprensibile che si preferiscano bocche chiuse e scelte allineate. Chi risponde da una parte si fa carico della situazione, dall’altra paradossalmente interroga la realtà e non si accontenta delle cose come stanno. Per questo, appunto, si preferisce l’assenso alla risposta; ma sono due modalità ben differenti di interagire, con esiti altrettanto diversi. Lo mostra il fatto che, in tutti gli ambienti, la carriera solitamente si apre per chi assente, non per chi risponde. Sarebbe interessante ripercorrere le Scritture, là dove vengono narrate le vocazioni di tanti protagonisti delle pagine bibliche: chiamate, che invocano risposte. Il più delle volte le leggiamo e le commentiamo, in ambito ecclesiale, come puri e semplici assensi, tanto più meritori quanto meno discussi: sia fatta la tua volontà! Eppure i racconti sono là a dirci che quasi sempre c’è una titubanza, un’interrogazione, addirittura un iniziale rifiuto. Rispondere è infatti fare i conti con la libertà, che soprattutto Dio prende sul serio e rispetta fino in fondo. Non vuole che siamo esecutori di ordini, bensì donne e uomini che rispondono con intelligenza e cuore alla sua Parola, agli eventi della vita, alle persone con cui intrecciamo il cammino dell’esistenza. Ed è a partire dalle risposte, date o non date, che emerge progressivamente la vocazione alla quale siamo chiamati. Nella bottega del vasaio, al profeta Geremia viene mostrato che la mancata risposta della creta alle mani che la plasmano non fa gettare via tutto, ma che ne esce un altro vaso.
Ascolto
Si risponde a quanto ci è stato chiesto, quindi la risposta è di solito in riferimento alla domanda. Capita, soprattutto nella quotidianità delle convivenze, che in realtà non si ascoltino le domande di chi ci sta intorno. Spesso riteniamo di sapere in anticipo che cosa ci chiedono, oppure abbiamo già deciso in cuor nostro che sappiamo noi cosa è bene per loro, pertanto le nostre risposte possono prescindere dalle domande. In questo senso, siamo convinti che la risposta più rapida è la migliore; come in un quiz, rispondere immediatamente è vincente. Si sa subito che cosa dire, mostrando che siamo precisi ed efficienti. E invece mostriamo che non abbiamo ascoltato davvero la domanda posta, altrimenti sarebbe risuonata in noi e avrebbe richiesto un tempo di elaborazione della risposta. E quando arriva, non è allora perentoria e conclusiva, ma interlocutoria: non chiude la bocca all’altro, gliela apre per un dialogo e un confronto, che arricchisce la risposta data. Rispondere può talvolta voler dire porre un’ulteriore domanda, come è nella tradizione ebraica e come infatti fa spesso Gesù di Nazareth. La tradizione cattolica invece, soprattutto per chi è andato a dottrina cristiana, è improntata sulle risposte certe e sicure. Nel classico catechismo a domande e risposte, da qualcuno rimesso in auge anche dopo il Vaticano II, la domanda è espressa a partire dalla risposta già formulata. Siccome non posso che risponderti così, ti costruisco la domanda che devi farti. Proprio un bel modo di prendere sul serio le domande, che vengono dalla vita! D’altra parte, pensa qualcuno, chi dice che dobbiamo rispondere a quanto il mondo chiede? Noi dobbiamo proporre la verità nella sua forma risolutiva. A questo serve la Chiesa, che non può pertanto farsi condizionare da troppe domande.
Indifferenza?
Al di là delle posizioni teologiche, la crisi di una proposta di fede che sia risposta alle domande reali delle persone sembra dovuta anche al fatto che… mancano le domande. Il clima culturale è cambiato, rispetto ai tempi in cui si metteva in discussione tutto. Quelli tra noi, di una certa età, che vorrebbero continuare a problematizzare e a porre questioni, sono visti come dei poveri reduci. L’indifferenza pare regnare sovrana, in particolare se si tratta dell’ambito della fede. Pensiamo a livello giovanile: cosa vuoi rispondere alla prima generazione incredula, che non pratica e non ha rovelli religiosi in cui dibattersi? Che sia proprio del tutto così, va per lo meno problematizzato. La Chiesa cattolica sta camminando verso il sinodo dei vescovi sui giovani, in occasione del quale si è tentato un ascolto a vari livelli dei giovani stessi. L’autentico ascolto cerca di intercettare le domande, sia quelle esplicite sia quelle espresse con modalità non immediatamente percepibili, mettendosi sulla lunghezza d’onda di un mondo giovanile complessivamente lontano dagli ambienti ecclesiastici. E se le domande sono tutt’altro che scontate, meno ancora scontate possono essere le risposte. Le storie di vita, narrate da ragazze e ragazzi anche in recenti inchieste sociologiche, dicono di una singolare ricerca religiosa presente in loro, che tuttavia non trova risposta nelle forme religiose tradizionali e nelle appartenenze confessionali. Di per sé sappiamo che dovremmo rispondervi con il Vangelo di Gesù, non con altro, evitando spiritualismi evanescenti e proposte generiche. Ma non è detto che le risposte delle chiese siano automaticamente evangeliche.
Dalla vita e con la vita
Se ci pensiamo le risposte più determinanti, nel bene e nel male, ci sono venute dalla vita. Rispondere non può essere infatti unicamente un esercizio di parola, pur sottolineando l’importanza di dare parole ai vissuti. Certo, la capacità di decifrare le risposte che ci offre l’esistenza, nelle sue molteplici sfaccettature, si affina un po’ alla volta. Chiede di non essere superficiali, di lasciarsi interrogare da quanto avviene, di accogliere come risposta quanto può mettere in questione la nostra stessa domanda. Alcune risposte che abbiamo ricevuto, sulle quali abbiamo sbattuto il naso, ci hanno permesso di andare alle domande fondamentali spesso taciute o accantonate. In questo senso, la vita non fa sconti e non dispensa facili risposte; e ciò vale non solo per chi non è credente, ma anche per chi lo è. Se è dalla vita che vengono molte delle risposte che cerchiamo, è con la vita che siamo chiamati a rispondere: agli altri, a noi stessi, a Dio. C’è di mezzo una credibilità, che interpella tutti e ciascuno, e si traduce in coerenza. Attenzione, però. La coerenza prende dentro anche le risposte non date o sbagliate, se si ha il coraggio di riconoscerle e di cambiare direzione. I miei gesti, le mie scelte, ciò che faccio e forse molto più ciò che ometto di fare, sono concretamente il mio modo di rispondere. In realtà è un corrispondere: risposta a ciò che mi è stato donato e risposta data insieme.
don Dario Vivian