Rileggere Apocalisse per ritrovare il ritmo della Divina Presenza che abita ogni tempo e ogni luogo, anche il più contraddittorio
Il libro Il miele e l’amaro. Lettura mistico-sapienziale dell’Apocalisse l’ho scritto in pieno tempo di pandemia, un tempo in cui i nostri corpi si sono ammalati, si sono spenti o hanno avuto paura. Siamo ancora in un tempo in cui il virus è presente e, anzi, assistiamo a un progressivo rompersi degli equilibri tra gli esseri umani e il pianeta Terra, ma anche tra di noi e in noi.
In questo tempo così complesso, in cui però siamo chiamati a vivere, leggere, interpretare e approfondire, il libro dell’Apocalisse può aiutarci a renderci conto che non bastano intelligenza e coraggio ma che “qui è necessaria una mente saggia” (17,9). Non solo la ragione, ma la Sapienza, per riuscire a interpretare le più forti contraddizioni.
Perché un libro come l’Apocalisse con il suo stile è un genere definito apocalittico? Perché il libro dell’Apocalisse riguarda il presente e non il futuro come spesso abbiamo pensato e, come tale, può guidarci a guardare la realtà, imparare a starci dentro vivendo in un altro modo. Ci tengo a dire che l’Apocalisse per me è solo un libro; medito su un testo in quanto fonte sapienziale, scritto in un contesto diverso dal mio, quando il cristianesimo non sapeva ancora di diventare quello che poi invece è diventato, ma secondo una lettura interpretativa mistico-sapienziale, l’Apocalisse può diventare un testo ispiratore per generare un altro modo, differente, di convivenza umano-cosmica. Si legge il tempo presente, si leggono i fatti o gli avvenimenti che toccano la nostra vita e quella di altre e altri. È, infatti, visione del presente, vedere che il senso si delinea anche nei momenti più oscuri; nella profezia che pervade il testo si vede ciò che si ricerca. Chi scrive l’Apocalisse vede la bellezza anche nel buio ed è quello che tenta di fare: mostrare bellezza, come possibilità che il difficile presente porta dentro. La storia è costantemente generata, concepita, data alla luce. Tutto è humus da cui si può percepire una visione nel presente, senza aspettare chissà cosa dal futuro. Infatti, non è il passato che va riscattato e redento ma il presente, la storia di ciascuna e di ciascuno e di ogni essere vivente. L’Apocalisse insegna a vivere in un contesto poco favorevole, in cui la speranza, la fede e anche l’amore sono minacciati, così come sono minacciati la giustizia, il discernimento saggio e la vera relazione con gli altri e con le cose.
Anche la chiesa è coinvolta in questa nuova interpretazione: era nata attorno a una grande nostalgia cioè il ricordo di quelle parole: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20), ma poi non ha saputo essere fedele agli inizi della sequela di Gesù.
C’è dunque da riscoprire un discepolato che a mio avviso non è un “discepolato di uguali”, ma molto di più: è un discepolato della differenza, dove ciascuno porta con sé la propria storia identitaria, la Sapienza che l’ha generata o generato. Ed è qui l’ombra che si estende sulla chiesa: perché di per sé, recuperare le categorie più escluse, gli impoveriti dal sistema, in essa non può darsi senza il riconoscimento dell’autorità femminile: non solo come partecipazione ma – sottolineo – come autorità propria, differente, creativa e alternativa delle donne.
Ciò che ho chiaro è che tutto il testo dell’Apocalisse testimonia ciò che nell’esperienza della fede si percepisce come Divina Presenza. Il suo nome in ebraico è Shekinah. Quella che le donne seguirono nel loro cuore quando si affrettavano verso il sepolcro, il primo giorno dopo il sabato percependo che là c’era sentore di Presenza. La Divina Presenza si sente in tutto il testo dell’Apocalisse: abiterà con loro, dice Apocalisse 21,3; ogni volta che l’umanità e l’universo soffriranno, asciugherà le loro lacrime; farà di tutto per togliere la morte, il lamento e l’affanno (cfr. 21,4). Ci sono momenti in cui siamo davvero incapaci di percepire la Divina Presenza nello svolgersi degli avvenimenti, mentre la Divina Presenza abita totalmente il tempo e lo spazio, persino il più contraddittorio.
La nostra vita, la vita di tutta la Terra segue un ritmo, il giorno ritorna e poi torna la sera e la notte. Secondo il libro dell’Apocalisse c’è un solo momento in cui il buio scompare e lascia spazio alla luce. Chi scrive il libro lo percepisce in una visione: “La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina” (21,23). È vero non conosciamo il tempo, ma conosciamo il come, cioè quali sono i gesti e le condizioni per abitare il mondo in un altro modo: asciugare le lacrime, togliere il lutto, la fame, l’ingiusta fatica (cfr. 21,4.7).
Il libro dell’Apocalisse ci può aiutare in questo progressivo innamoramento della realtà e del tempo da vivere, senza scandalizzarci degli intensi chiaroscuri che avvolgono insieme la natura e l’umanità.
La realtà va guardata per essere amata, per trovare vie di uscita dal suo dolore. Vie d’uscita che chiedono anche di scoprire il male che ha nome o più nomi, anche nel libro dell’Apocalisse. Questi nomi vanno scoperti, decifrati, ma non per la condanna bensì per la trasformazione.
Non credo che la Divina Presenza combatta, ma che ami, abbracci e baci, cioè si prenda cura fino alla fioritura della fedeltà e del dono dei frutti della terra insieme alla pioggia.
Antonietta Potente