È sempre molto difficile scrivere qualcosa della propria esperienza pastorale, soprattutto dopo gli avvenimenti di questi ultimi mesi accaduti nello stato di Roraima, dove svolgiamo il nostro apostolato nella sezione femminile del carcere della capitale, Boa Vista. Condividiamo con voi il nostro vissuto per poterne far oggetto di preghiera e di speranza in nuove possibilità di vita.
La nostra comunità religiosa abita a Boa Vista da nove anni e prende il nome di Comunità del-l’Epifania. In questa realtà missionaria svolgiamo molte attività, fra le quali il nostro essere presenti nella pastorale carceraria della città. Da qualche anno questo nostro impegno si è fatto sempre più significativo, tanto da essere chiamate a far parte di alcune commissioni ed équipe di lavoro gover-native e civili che tentano di richiamare l’atten-zione del governo e di altri enti competenti su alcu-ne realtà a rischio: i minori, le donne, i carcerati e le carcerate.
Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 nel carcere maggiore della città c’è stato un fatto gravissimo, di cui si è avuta notizia anche a livello inter-nazionale: una lotta fra detenuti con la morte di decine di persone, in risposta ad un’altra azione violenta avvenuta qualche settimana prima nella capitale del vicino stato di Amazzonia, dove sono state uccise sessanta persone. Queste faide violente sono fra diverse bande di criminali che lottano per la supremazia nei gruppi della malavita orga-nizzata. Durante la prima azione violenta sono morti a Boa Vista dieci carcerati, nella seconda ne sono stati barbaramente uccisi trentatrè proprio nella notte dell’Epifania, festa della nostra famiglia religiosa.
Come pastorale carceraria abbiamo chiesto aiuto e la commissione governativa nazionale dei diritti umani di Brasilia si è attivata e ha inviato dei rappresentanti in Amazzonia per verificare la situazione. L’équipe, composta da due deputati federali con i relativi segretari, è arrivata a Manaus il 10 e 11 gennaio, e poi anche a Boa Vista.
Il primo incontro nel nostro stato è avvenuto con l’équipe pastorale, nella sede della curia vescovile, alla presenza del vicario diocesano p. Giancarlo Dallospedale che rappresentava il vescovo: era presente un delegato del nostro stato, un avvocato e il coordinatore delle pastorali sociali della diocesi. Abbiamo esposto la situazione delle carceri maschili e femminili, di persone che vivono in una situazione insostenibile per un essere umano. Alle volte pensiamo che alcune delle nostre stalle sono molto piú accoglienti, pulite e dignitose delle celle in cui sono rinchiusi i detenuti e le detenute! Abbiamo presentato varie denunce che ci erano arrivate sia da parte delle carcerate che da parte delle famiglie, senza dimenticare la difficilissima situazione della gestione del presidio: ogni turno quindici guardie, per 1400 carcerati!
Dopo la nostra esposizione, l’équipe è andata nella Segreteria della pubblica sicurezza e in seguito abbiamo visitato insieme il carcere. L’esperienza vissuta quel giorno è stata davvero di grande sofferenza. Siamo stati subito ricevuti dallo squadrone della forza tattica: un gruppo di venti agenti dei quali dieci in assetto di guerra, incap-pucciati e armati fino ai denti. Eravamo circondati da questi poliziotti che però in nessun momento ci hanno impedito di visitare le celle, essendo presenti con noi le autorità governative federali. Logi-camente seguivamo le indicazioni del direttore per ragioni di sicurezza, e quel giorno ci hanno consentito di visitare tutto il carcere. Siamo rimaste impressionate per la giovane età dei carcerati: alcuni sembravano adolescenti e quando ci avvicinavamo alla porta del corridoio dove si aprivano le celle le grida di aiuto arrivavano da tutte le parti: grida di rabbia, di dolore, di disperazione. Sapevano di aver sbagliato, ammettevano la loro colpa, ma chiedevano di scontare la loro pena in luoghi degni di esseri umani. Le grida erano assordanti, ma quando qualcuno dei detenuti, forse il capo, gridava più forte, tutti si zittivano e questi ci urlava la loro pesante situazione: celle super affollate (in celle di due posti erano presenti sei persone), presenza di feriti, poca assistenza medica e giudiziaria, mancanza dell’ora di sole (erano costretti a restare in cella tutto il giorno senza nulla da fare, senza possibilità di uscire all’aria aperta) mancanza di cibo che molte volte arrivava scarso o avariato. Il grido comune in tutti i reparti era: “Non dimenticatevi di noi quando uscite di qui!”.
Sporcizia e immondizia erano accumulate fuori dalle celle, piene di mosche; il carcere in molte parti era semi-distrutto, celle piccole, super affollate, sporche, con un caldo soffocante (in Roraima il caldo arriva a 40° nelle ore più calde), con finestre piccole ed esposte al sole. In mezzo a tutto questo dolore, a questa sofferenza, grida di aiuto e muri rovinati e sporchi: in fondo al corridoio, una parete tutta bianca, quasi pulita, con la grande scritta MAMÃE: l’amore della mamma non si dimentica mai, neppure in un tale inferno umano.
Nei giorni successivi abbiamo cercato e ottenuto un incontro con i promotori di giustizia, i quali ci hanno assicurato la loro disponibilità a lavorare per risolvere i problemi più urgenti, come già il giudice che accompagna il lavoro del-la commissione del consiglio comunitario ci aveva promes-so. Questo è davvero avvenuto la settimana successiva, con una mobilitazione collettiva nel campo giudiziario e della salute per risolvere i problemi pricipali, ma solo nel carcere femminile perché con minor numero di presenze. Non si sono risolti tutti i problemi ma si è fatto un passo! La nostra impressione è sempre la stessa: persone, esseri umani che semplicemente perché non hanno soldi sono dimenticati lì!
Sembra impossibile: questa realtà è conosciuta da tutti (governo, giudici, avvocati), ma nessuno sembra poter fare nulla e di fronte alle nostre richieste molti rispondono: “Mi dispiace, ma non è di mia competenza”.
Preghiamo perché il Signore susciti persone competenti che possano incontrare strade più giuste per aiutare i nostri fratelli e sorelle a rifarsi una vita degna di esseri umani.
Suor Antonia e suor Renata