Tra scatti e riscatto

05
Apr

Il popolo delle donne finalmente ha un volto

Giovanna d’Arco, Matilde di Canossa, Artemisia Gentileschi, Caterina da Siena, Vittoria d’Inghilterra: nomi che hanno fatto la storia, sante, eroine, regine, artiste. Ma… dov’è il popolo delle donne? Quelle che mettono al mondo i figli, che curano la famiglia, che ogni giorno lavano, stirano, si sforzano di sbarcare il lunario, insegnano ai bambini le prime regole del vivere civile e i princìpi della fede, si prendono cura dei fragili, sopportano – ignorate – violenze e soprusi oppure lottano e si ribellano, difendono i figli… assenti, mute, non degne di apparire nell’arte.

Rappresentano eccezioni le donne greche protagoniste di opere teatrali, sia commedie sia tragedie. Quasi una contraddizione, la loro presenza, visto che nelle città greche le donne non solo sono escluse da ogni attività pubblica, ma confinate in casa nelle stanze a loro destinate, il gineceo. Ancora oggi non possiamo non stare tutte dalla parte delle ateniesi e dalle spartane nate dalla fantasia del commediografo Aristofane, che nel pieno della lunga guerra del Peloponneso che contrappone le loro città, spinte dall’ateniese Lisistrata organizzano insieme, di comune accordo, uno sciopero davvero trasgressivo: si asterranno da ogni prestazione domestica, familiare, coniugale, così da costringere i bellicosi congiunti a un accordo che ponga fine al devastante conflitto. A questa stessa pagina di storia si ispira indirettamente Euripide che nella tragedia Le troiane ci descrive la guerra e i suoi orrori visti con gli occhi delle donne. Mentre la città ancora brucia, la vecchia regina Ecuba piange i suoi figli morti, la profetessa Cassandra in preda alle visioni preannuncia un destino di violenza e schiavitù per le donne ormai sole, Andromaca, vedova dell’eroe Ettore, urla il suo strazio per il figlioletto scagliato giù dalle mura di Troia. E insieme a loro il coro delle altre donne, mogli, sorelle, madri dolorose. Un grande lamento corale che dal mondo antico attraversa tutta la storia. Ecco, solo nei momenti tragici emerge dalle tenebre il popolo delle donne. Anche l’arte sembra tacere.

C’è un episodio, però, davanti al quale gli artisti di epoche diverse rompono il muro del silenzio: è la rappresentazione della Strage degli innocenti, così vicina al pianto delle troiane nella sofferenza per il dolore dei piccoli. Giovanni Pisano è uno dei rinnovatori della scultura italiana, attivo in Toscana fra Due e Trecento. I pulpiti in marmo scolpiti per le città di Siena, di Pisa, di Pistoia sono autentici Evangeliari scolpiti: la Parola da lì proclamata si accompagna con le figure scolpite, così da imprimersi meglio nella memoria dei fedeli, invitandoli alla contemplazione. Ed è di una modernità straordinaria la scena della mattanza dei bambini: forme, ritmi, rilievo che sembrano uscite da uno scultore a noi contemporaneo; volti deformati, profili spezzati, urla fatte pietra, figure che si accavallano senza ordine apparente, perché è la negazione stessa di ogni ordine divino e umano lo strazio dei piccoli e delle loro madri. “L’urlo nero della madre”, canterà Salvatore Quasimodo in una celebre poesia scritta ai tempi dell’occupazione nazifascista. Quello stesso urlo nero che è la scena forse più celebre di Guernica, la grande tela che Pablo Picasso dipinge quando, in esilio, gli giunge la notizia del bombardamento della cittadina basca, durante la guerra civile spagnola. Ancora guerra, ancora vittime innocenti …e il popolo delle donne esce dalle case.

Sono proprio gli scatti di una giovane coraggiosa fotografa, Gerda Taro, la ragazza con la Leica (l’inseparabile macchina fotografica), pure lei testimone della guerra di Spagna, a lasciarci il volto reale del popolo delle donne in quel conflitto, dove lei stessa, Gerda, morirà a soli ventisette anni. In testa a una colonna di profughi su una strada assolata, preoccupate ma decise, dietro alle sbarre in attesa di vedere i loro uomini catturati: non c’è rassegnazione né passività nei loro volti. Le immagini delle volontarie che difendono la libertà della loro patria e non stanno nelle retrovie a cucire e cucinare, mostrano al mondo la cesura rispetto al vecchio ordine patriarcale; per questo la forza delle fotografie di Gerda non risiede solo nella loro qualità estetica, nell’uso incisivo del bianco e nero ma nel tentativo di voler anticipare il futuro. E così lei diventa tutt’uno con il popolo che combatte, con i bambini, le donne, i contadini, la vita quotidiana sconvolta… e lo fa fino alla fine, travolta da un carro armato, vittima lei stessa della guerra. La grande svolta del Novecento è proprio per la donna, per l’insieme delle donne, la rappresentazione che finalmente esse stesse danno di sé, senza mediazioni, anche attraverso i nuovi strumenti che la tecnologia mette a loro disposizione. E la fotografia in questo è uno strumento straordinario.

Appena più giovane di Gerda è una delle più grandi fotografe del secolo scorso, Tina Modotti, la cui figura nel tempo assume contorni quasi mitici, sia per la sua vicenda di ragazza che per sfuggire alla miseria della sua terra friulana emigra in America, sia per l’impegno sociale che la porta dagli Stati Uniti al Messico, dalla Spagna della Guerra Civile all’Unione Sovietica. È soprattutto in Messico, dove abbraccia gli ideali egualitari della recente rivoluzione, che esplodono la sua passione e il suo stile: fermare con lo scatto i volti degli uomini, delle donne del popolo, con i visi espressivi, gli abiti tradizionali, gli oggetti simbolo, le mansioni, le gioie e le fatiche della vita quotidiana, spesso le mani che evocano un mestiere e che parlano da sole, senza alcuna messa in posa. Considerata antesignana della “fotografia di strada”, Tina è un esempio di come la fotografia possa essere “onesta”, senza cedimenti alla bellezza fine a se stessa, ma attenta a tutti gli aspetti più veri della realtà. Basti vedere le sue donne al mercato: un universo tutto femminile di ogni età, che, riparandosi dalla canicola con gli scialli scuri, si muove pensieroso tra la poca merce esposta. E che dire delle Mani di lavandaia, col forte contrasto tra il colore scuro delle mani gonfie, sciupate dal lavoro, e il bianco dei panni lavati: un’immagine divenuta icona del mondo di Tina Modotti. Non è un caso che negli anni Venti e Trenta alcuni ambienti conservatori proponessero di togliere la macchina fotografica dalle mani delle donne. Ma ormai i tempi stanno irreversibilmente cambiando… e il popolo delle donne si è ormai messo in cammino. Ed è un’altra grande fotografa, Ruth Orkin, a rappresentare il futuro negli anni del secondo dopoguerra: eccole le bambine dell’oggi e del domani, con gli abitini di cotone e il fiocco nei capelli che camminano leggere per strada con passo sicuro. Solo una cosa sembra catturare tutta la loro attenzione e il loro interesse: leggere. Saranno loro l’avanguardia del futuro.

Chiara Magaraggia

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