Scegliere parole buone, educare, chiamare per nome, mediare…alcuni gesti per tessere concretamente i nostri sogni di pace
I bambini di cinque anni conoscono l’arte di fare la pace. Non è un’affermazione buonista, è la conclusione di lunghe ricerche sul campo fatte da Giovanna Axia, psicologa dell’età evolutiva all’Università di Padova, e pubblicate in un saggio delizioso, Elogio della cortesia (Il mulino 2012). Prendiamo un dialogo registrato in una scuola d’infanzia: il bambino Yader rivuole indietro il bastoncino che la bambina Paola gli ha rubato: “Mi serve! Mi serve a me!”, dice. “Anche a me mi serve a fare così! Ecco!”, risponde Paola. Yader tenta di darle un altro bastoncino ma Paola non ci sta: “No! Questo non mi serve! Mi serve questo!”. Tutti abbiamo assistito a queste discussioni che sono per i bambini la prima affermazione potente di sé. Se sono più forte esisto, per cui non posso cedere. Nella conversazione si intromette una terza persona, la bambina Romina, che a un certo punto dice: “Yader, per favore, se tu le dai quel bastone io ti do questo”. Offre un cambio. E Yader accetta. Niente guerra. Perché, spiega Giovanna Axia, spontaneamente, istintivamente, sono state messe in campo due strategie che hanno cambiato il segno della discussione. Romina ha chiamato per nome Yader (e quindi il bambino esiste, viene riconosciuto) e ha chiesto per favore, e quindi cedere o non cedere a questo punto dipende da Yader. La forza non c’entra più, c’entra la sua magnanimità. I bambini sanno bene cos’è la magnanimità, parente un poco più sostenuta della generosità, perché la magnanimità ha ancora a che vedere con il potere ma con un potere che si spoglia spontaneamente di sé. Ecco. Il riconoscimento dell’altro e insieme la mediazione fanno il miracolo. Qui le mediazioni sono due. La bambina che è terza rispetto ai due contendenti. Lei li vede tutti e due, li riconosce tutti e due. Sa dare ad entrambi il giusto valore. È chiaro che qualcuno ha cominciato e che il torto non è ripartito in modo uguale, cosa che non capita davvero quasi mai nel gioco come nella vita. L’importante è trovare un modo di uscire dallo scontro frontale e qui, alla mediazione della bambina Romina, si aggiunge la mediazione della formula per favore, ovvero “quel sottile strumento di pacificazione che è la cortesia”, dice la Axia. Si ferma la freccia, proprio come accade alla cerva nella poesia di Wislawa Szymborska. “Altre leggi, nero su bianco, vigono qui. / Un batter d’occhio durerà quanto dico io, / si lascerà dividere in piccole eternità / piene di pallottole fermate in volo” (La gioia di scrivere).
Miracolo della poesia e della cortesia, che fanno accadere le cose attraverso le parole.
C’è un secondo dialogo, più drammatico, nel testo di Giovanna Axia. Altra scenetta. Carlo offre scherzosamente qualcosa a Umberto e gli dice “Guarda! Un serpente! Tieni!”. Umberto non vuole: “Te lo tieni”. Carlo: “Tieni!” Umberto: “No!” Carlo: “Ti ammazzo!” Umberto: “Anch’io ti ammazzo”. Fine. La guerra è servita. Chi la fermerà?
Si può pensare che sono solo bambini e che tutto questo non vale tra gli adulti. Dove ci sono la storia, la legge, i valori, l’identità da difendere in faccia al mondo. E invece no: “Davvero, uno si chiede cosa facciamo ai bambini per costringerli a diventare quegli adulti ottusi e prevaricatori che tanto spesso ci affliggono l’esistenza”. È sempre Giovanna Axia a farci la domanda. E noi possiamo rispondere. Siamo noi il problema, noi adulti che roviniamo la spontanea capacità di riparare le relazioni, di non andare alla guerra, offrendo ai bambini immagini di guerra, giorno dopo giorno. Ci esprimiamo in modo aggressivo, abbiamo socialmente reso accettabile l’offesa in tv, nella politica, nei social e soprattutto nelle nostre conversazioni private: “L’avrei ammazzato”, per un’offesa sul lavoro; “Che si schianti!” a chi ci sorpassa in modo azzardato; “Che gli prenda un accidente”, “Maledetto” eccetera eccetera. Possiamo pensare che sono iperboli, che nessuno davvero vuole il male dell’altro. Ma le parole vengono da un pensiero – ostile, negativo, affannosamente aggressivo in questi casi – e costruiscono un mondo – ostile, negativo, affannosamente aggressivo.
La Bibbia conosce bene il potere delle parole e si preoccupa delle parole molto più di quanto si preoccupi della sessualità. Basta leggere i libri sapienziali: “Spaventosa è la morte che la lingua procura, al confronto è preferibile il regno dei morti” (Sir 28,25). E il Vangelo che è annuncio di una parola nuova capace di tessere relazioni nuove con Dio e con gli uomini: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27). Tessere la pace, si dice. Tessere chiede un progetto, un’idea da seguire. A volte c’è un disegno, un modello. A volte c’è una sapienza già acquisita per cui posso cambiare progetto in corso d’opera. Ma di sicuro non si tesse qualcosa a caso. Lo facciamo perché decidiamo di dedicarci tempo e pensieri, perché ne vale la pena, per motivi di necessità, un vestito, un lenzuolo, oppure per esprimere noi stessi in una forma d’arte. Gli arazzi, i tappeti, i quadri. In tutti i casi si deve sapere che cosa si vuole.
Ma la pace, la vogliamo? Davvero davvero? Domanda retorica, certo che sì! Tutti vogliono la pace. E allora se 59 Paesi al mondo stanno combattendo una guerra, oggi (calcolo di Internazionale, n. 1452 del 2022), vuol dire che la nostra buona intenzione non è sufficiente. Forse stiamo sognando, e va bene, i sogni ci portano, ma non stiamo tessendo. Non pensiamo abbastanza al nostro modo di educare. Non stiamo esponendo i bambini, figli, nipoti, tutti i bambini, a modelli di comportamento pacifici. Non parliamo con parole di pace. Non diamo il nostro voto a operatori di pace. Non chiamiamo le persone per nome ma per categoria. Chiamare per nome vuol dire riconoscere l’altro, che prima, molto prima di essere straniero (rispetto al campanile con cui ci identifichiamo), diverso (rispetto all’omogenea bolla in cui ci coccoliamo), è fratello. “Oggi la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità” (papa Francesco, 4 febbraio 2021).
Maria Pia Veladiano