Tessere chiesa

12
Dic

Comunità, sinodo, relazioni ecclesiali, donne, ministeri, lettura evangelica

La tessitura è un’arte che chiede tempo, relazioni, comunità. Può sembrare di no, perché l’immagine che abbiamo è di un paio di mani, di solito femminili, che muovono i fili su un telaio. E invece chi arriva a questo ha ricevuto i segreti del tessere da qualcuno, si è accompagnato a lungo con lei, è quasi sempre una lei, ha instaurato una relazione, ha raccolto la sapienza di una intera comunità. Gli esperti di tappeti (o di maglioni o di coperte o di scialli) riconoscono immediatamente la provenienza della tessitura e sanno se si tratta di piccoli geometrici tappeti baluchi tessuti da inafferrabili popoli nomadi sparsi fra l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan, oppure di delicati tappeti caucasici con prudenti presenze di fiori e animali.

Ma prendiamo il fermo immagine della comunità. Chi tesse lo fa perché la comunità riconosce il valore di quel che fa. Sa che, quando avrà finito l’apprendistato, ci sarà chi verrà a vedere, apprezzerà, si allargherà in commenti e apprezzamenti, acquisterà. O no, qualche critica è nel conto, naturalmente. Non solo. Quel che ha ricevuto è stato trasmesso. È passato di generazione in generazione. È perciò, anche per questa dinamica laicissima e antropologicamente universale, che la tradizione ha in sé un valore. Se non diventa feticcio. La Riforma protestante quando proclama il suo sola fide, sola scriptura alza la voce contro un feticcio che, ad esempio, ha trasformato la Grazia in compravendita (le indulgenze). Il feticcio era ed è il potere, intrecciato con il denaro e nella chiesa ci stiamo combattendo dal tempo del Vangelo, e ancora oggi con i parroci che mettono le tariffe sui sacramenti o con i movimenti ecclesiali che acquistano prestigio con opere di immenso valore economico.

Ecco. E il sinodo, fortissimamente voluto da papa Francesco, che cosa ha da dire su questo tessere chiesa? La tessitura è arte femminile, quante volte si è scritto, e le donne di fede hanno quest’arte. E del resto la chiesa ormai è femminile nei numeri, nei servizi, nella dimensione caritativa, nella catechesi, e potremmo continuare. In tutto tranne che nella condivisione della responsabilità. La responsabilità è di uomini, consacrati, formati in seminari, ormai svuotati, e in facoltà teologiche di necessità frequentate da uomini come loro, sostenuti dalle diocesi oppure dagli ordini religiosi di appartenenza. Perché le facoltà teologiche sono poche, richiedono la frequenza obbligatoria e il fatto che sono lontane e la frequenza costosa limita fortemente l’accesso delle donne. E comunque, anche quando sono formate e competenti, non c’è un luogo istituzionalmente riconosciuto in cui le donne possano esercitare la responsabilità nella chiesa. Qua e là sì, vengono cooptate da vescovi illuminati a fare cose, ma non è questo il punto. Il punto è che affinché sia vero, l’esercizio della responsabilità deve essere strutturale, indipendente dalla benevolenza di un vescovo o di un papa. E deve essere diffuso e riconosciuto.

Il Sinodo. Non sappiamo molto della discussione, a meno di volersi affidare alle voci. La scelta è stata il silenzio per favorire l’ascolto reciproco. Ma abbiamo la Relazione di sintesi, pubblicata con in allegato i numeri delle votazioni, paragrafo per paragrafo. Alla Parte II paragrafo 9 si parla delle donne, e scorrendo i fogli con gli esiti delle votazioni si è colpiti, stupiti, di vedere come prima e dopo, anche su argomenti potenzialmente molto divisivi, i voti contrari al testo finale siano assolutamente esigui, numeri a una cifra, e invece su questo tema i contrari siano una parte consistente dell’assemblea sinodale. Contrari a che cosa, poi? Ad esempio a che “si prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato, giovandosi dei risultati delle commissioni appositamente istituite dal Santo Padre e delle ricerche teologiche, storiche ed esegetiche già effettuate” (279 sì, 67 no, quasi il 20%). No a studiare? No a esercitare la riflessione teologica sul tema? E perché? Oppure, contrari a un testo che recita così: “Sono state espresse posizioni diverse in merito all’accesso delle donne al ministero diaconale. Alcuni considerano che questo passo sarebbe inaccettabile in quanto discontinuità con la Tradizione. Per altri, invece, concedere alle donne l’accesso al diaconato ripristinerebbe una pratica della Chiesa delle origini…”. E si elencano le diverse posizioni sull’accesso delle donne al diaconato (277 sì e 69 no). Come si fa ad essere contrari a un elenco di diverse posizioni? Dove la cosa più interessante comunque è l’uso del verbo “concedere”. Chi concede a chi? A chi appartiene la chiesa?

Naturalmente va sottolineato che alla fine la maggioranza ha richiesto che si parli e si studi e rifletta intorno al tema della donna nella chiesa, ma ecco, non sarà facile tessere chiesa se nemmeno la, tutto sommato tranquilla, richiesta che “testi liturgici e documenti della chiesa siano più attenti non solo all’uso di un linguaggio che tenga in ugual conto uomini e donne, ma anche all’inserimento di una gamma di parole, immagini e racconti che attingano con maggiore vitalità all’esperienza femminile” ha potuto ottenere un tranquillo universale consenso, come praticamente tutte le altre questioni teologiche che non toccavano il tema del genere. Perché? Di che cosa hanno paura (gli uomini di chiesa)?

Comunque alla fine le donne la salveranno, la chiesa. E lo potranno fare perché, pur essendo la maggioranza (per numeri, presenza, servizio), conoscono l’umiliazione e l’esclusione, hanno il dono dello “sguardo dal basso” (Bonhoeffer), sono da così tanto tempo “pietra scartata” che sono libere dalle trame, esattamente trame, del potere e sapranno salvarla da sé stessa. E lo potranno fare semplicemente perché sulla questione della donna sta o cade l’annuncio del Vangelo.

Maria Pia Veladiano

Comunità, sinodo, relazioni ecclesiali, donne, ministeri, lettura evangelica

La tessitura è un’arte che chiede tempo, relazioni, comunità. Può sembrare di no, perché l’immagine che abbiamo è di un paio di mani, di solito femminili, che muovono i fili su un telaio. E invece chi arriva a questo ha ricevuto i segreti del tessere da qualcuno, si è accompagnato a lungo con lei, è quasi sempre una lei, ha instaurato una relazione, ha raccolto la sapienza di una intera comunità. Gli esperti di tappeti (o di maglioni o di coperte o di scialli) riconoscono immediatamente la provenienza della tessitura e sanno se si tratta di piccoli geometrici tappeti baluchi tessuti da inafferrabili popoli nomadi sparsi fra l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan, oppure di delicati tappeti caucasici con prudenti presenze di fiori e animali.

Ma prendiamo il fermo immagine della comunità. Chi tesse lo fa perché la comunità riconosce il valore di quel che fa. Sa che, quando avrà finito l’apprendistato, ci sarà chi verrà a vedere, apprezzerà, si allargherà in commenti e apprezzamenti, acquisterà. O no, qualche critica è nel conto, naturalmente. Non solo. Quel che ha ricevuto è stato trasmesso. È passato di generazione in generazione. È perciò, anche per questa dinamica laicissima e antropologicamente universale, che la tradizione ha in sé un valore. Se non diventa feticcio. La Riforma protestante quando proclama il suo sola fide, sola scriptura alza la voce contro un feticcio che, ad esempio, ha trasformato la Grazia in compravendita (le indulgenze). Il feticcio era ed è il potere, intrecciato con il denaro e nella chiesa ci stiamo combattendo dal tempo del Vangelo, e ancora oggi con i parroci che mettono le tariffe sui sacramenti o con i movimenti ecclesiali che acquistano prestigio con opere di immenso valore economico.

Ecco. E il sinodo, fortissimamente voluto da papa Francesco, che cosa ha da dire su questo tessere chiesa? La tessitura è arte femminile, quante volte si è scritto, e le donne di fede hanno quest’arte. E del resto la chiesa ormai è femminile nei numeri, nei servizi, nella dimensione caritativa, nella catechesi, e potremmo continuare. In tutto tranne che nella condivisione della responsabilità. La responsabilità è di uomini, consacrati, formati in seminari, ormai svuotati, e in facoltà teologiche di necessità frequentate da uomini come loro, sostenuti dalle diocesi oppure dagli ordini religiosi di appartenenza. Perché le facoltà teologiche sono poche, richiedono la frequenza obbligatoria e il fatto che sono lontane e la frequenza costosa limita fortemente l’accesso delle donne. E comunque, anche quando sono formate e competenti, non c’è un luogo istituzionalmente riconosciuto in cui le donne possano esercitare la responsabilità nella chiesa. Qua e là sì, vengono cooptate da vescovi illuminati a fare cose, ma non è questo il punto. Il punto è che affinché sia vero, l’esercizio della responsabilità deve essere strutturale, indipendente dalla benevolenza di un vescovo o di un papa. E deve essere diffuso e riconosciuto.

Il Sinodo. Non sappiamo molto della discussione, a meno di volersi affidare alle voci. La scelta è stata il silenzio per favorire l’ascolto reciproco. Ma abbiamo la Relazione di sintesi, pubblicata con in allegato i numeri delle votazioni, paragrafo per paragrafo. Alla Parte II paragrafo 9 si parla delle donne, e scorrendo i fogli con gli esiti delle votazioni si è colpiti, stupiti, di vedere come prima e dopo, anche su argomenti potenzialmente molto divisivi, i voti contrari al testo finale siano assolutamente esigui, numeri a una cifra, e invece su questo tema i contrari siano una parte consistente dell’assemblea sinodale. Contrari a che cosa, poi? Ad esempio a che “si prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato, giovandosi dei risultati delle commissioni appositamente istituite dal Santo Padre e delle ricerche teologiche, storiche ed esegetiche già effettuate” (279 sì, 67 no, quasi il 20%). No a studiare? No a esercitare la riflessione teologica sul tema? E perché? Oppure, contrari a un testo che recita così: “Sono state espresse posizioni diverse in merito all’accesso delle donne al ministero diaconale. Alcuni considerano che questo passo sarebbe inaccettabile in quanto discontinuità con la Tradizione. Per altri, invece, concedere alle donne l’accesso al diaconato ripristinerebbe una pratica della Chiesa delle origini…”. E si elencano le diverse posizioni sull’accesso delle donne al diaconato (277 sì e 69 no). Come si fa ad essere contrari a un elenco di diverse posizioni? Dove la cosa più interessante comunque è l’uso del verbo “concedere”. Chi concede a chi? A chi appartiene la chiesa?

Naturalmente va sottolineato che alla fine la maggioranza ha richiesto che si parli e si studi e rifletta intorno al tema della donna nella chiesa, ma ecco, non sarà facile tessere chiesa se nemmeno la, tutto sommato tranquilla, richiesta che “testi liturgici e documenti della chiesa siano più attenti non solo all’uso di un linguaggio che tenga in ugual conto uomini e donne, ma anche all’inserimento di una gamma di parole, immagini e racconti che attingano con maggiore vitalità all’esperienza femminile” ha potuto ottenere un tranquillo universale consenso, come praticamente tutte le altre questioni teologiche che non toccavano il tema del genere. Perché? Di che cosa hanno paura (gli uomini di chiesa)?

Comunque alla fine le donne la salveranno, la chiesa. E lo potranno fare perché, pur essendo la maggioranza (per numeri, presenza, servizio), conoscono l’umiliazione e l’esclusione, hanno il dono dello “sguardo dal basso” (Bonhoeffer), sono da così tanto tempo “pietra scartata” che sono libere dalle trame, esattamente trame, del potere e sapranno salvarla da sé stessa. E lo potranno fare semplicemente perché sulla questione della donna sta o cade l’annuncio del Vangelo.

Maria Pia Veladiano