Teologia come custodia del comune?

20
Ott

L’esperienza del comune come sfida e possibilità per la pratica teologica e per la vita ecclesiale e di fede

Una piccola premessa: a che servono i teologi/le teologhe (e dunque la teologia) in tempo di scarsità e crisi, come quello che stiamo vivendo?

Vi chiederete cosa importa questa domanda quanto al comune di cui ci dovremmo occupare.

Le teologie si offrono come un logos ragionevole, una conversazione, una capacità di riflessione e di parola scambiata in relazione stretta alle prassi e agli atti, a ciò che si fa e si vive; una trama di parole e pensieri scambiati che (condivisi o no!) rimandano oltre noi stessi, aprono spazi e domande di ulteriorità, spezzano le catene dell’autoreferenzialità.

Negli ultimi duecento anni le teologie hanno vissuto un grande esilio, imprigionate nelle accademie, nella logica clericale, perdendo (quasi) totalmente il loro legame alle pratiche, agli altri logos e conversazioni, ai saperi e alle sapienze delle cose e delle vite. Perdendo questo, hanno perso la loro principale funzione culturale nel nostro vivere sociale: aprire il qui ed ora, l’oggi, ad una ulteriorità che potesse essere il tessuto di un “comune” detto (e anche discusso, contestato, combattuto!) custodendo il superamento del narcisismo individualista.

Mi piacerebbe che si potesse dire: le teologie servono a mostrare che cultura e gentilezza sono sovversivi – o, come ama dire un’amica insegnante, che l’uso del condizionale e del congiuntivo sono baluardo per la democrazia, perché consentono di esprimere una narrazione ipotetica. Serve una teologia capace dello spazio linguistico e mentale dell’ipotesi aperta, perché tutti e tutte possano insieme immaginare (e dunque custodire) il comune che ci riguarda.

L’esilio a cui accennavo non è solo l’esilio delle teologie, ovvio, è l’esilio di molti saperi: è l’esilio della cultura della gentilezza, i cui ultimi frutti li vediamo ad esempio nella menzogna eletta a sistema politico. Gli ultimi due secoli hanno costruito, dopo la rivoluzione francese, una forma del vivere civile, o della democrazia, che mostrano oggi una serie di problemi. Li mostrano perché si è dissolto il trinomio fondativo che era il rapporto tra pubblico, privato e comune. E la forma occidentale ha tendenzialmente eliminato il comune; è rimasto attivo quasi solo un binomio polarizzante (e deformante) tra pubblico e privato.

Con l’abolizione del comune è accaduto che tutte le figure che non avevano avuto rappresentanza nel pubblico (eppure esistevano!, donne, stranieri, minori, rom, ma anche la terra, che non ha avuto una soggettività pubblica nell’immediato perché non avevamo due secoli fa una percezione come quella odierna circa l’usura dell’ambiente) si sono ritrovate con un comune che prima è stato azzerato e che ora, in tempo di scarsità, viene demonizzato come, non a caso, nemico (del) pubblico.

Come esempio, basta pensare alle discussioni circa gli stranieri e i migranti… È un problema reale, e sta qui uno dei motivi della diffusa aggressività attuale, che rivela una incapacità di uscire da apparenti polarizzazioni paralizzanti: solo una cittadinanza pensata nella logica del comune ha senso, una cittadinanza pensata nel contesto della polarizzazione tra pubblico e privato rivela un’aberrazione come risposta ad un’altra aberrazione.

Da questo punto di vista, la questione di fronte a cui siamo stati posti in modo crescente in questi anni – le donne in particolare ne sono state un grande segnale, ma non sole e non da sole – oggi è a un punto critico, perché si tratta di un punto soglia: chi non ha avuto una automatica rappresentanza nel pubblico si trova di fronte al dilemma se entrare in battaglia con l’unico scopo di ottenere la propria rappresentanza nel pubblico oppure non accettare la logica del confronto tra pubblico e privato, e porsi (insieme a tutti) di fronte alla questione della ricostruzione di un comune.

Il caso della crisi ecologica è il caso soglia di questa faccenda, perché esattamente costituisce la condizione di possibilità di esistenza per chiunque. Senza un pianeta nemmeno l’1% degli umani che detiene più della metà della ricchezza del mondo può sopravvivere.

Si tratta in questa situazione per i cristiani solo di impegnarsi nella polis, compiere una riflessione sulla politica e tutto ciò che segue? Questo conta, certo, ma c’è di più per noi: anche noi siamo spinti su un confine radicale (ogni tanto nonostante noi stessi) perché Dio è buono e ci conduce anche lì.

Siamo condotti a una soglia radicale perché in questo frangente si pone una domanda sull’autocomprensione della vita cristiana in sé, in quanto anche riflessione critica e logos ragionevole, e sul valore sovversivo della possibilità di una conversazione, in particolare sul luogo più polarizzato della storia, che è una conversazione sulle/intorno alle fedi di cui questo Occidente è figlio, soprattutto purtroppo figlio delle guerre di religione.

Ripartire da una conversazione possibile oltre, dentro e al di là delle polarizzazioni, e da una conversazione che rimandi oltre, al di là della centratura su se stessi.

In questo svincolo la teologia si interroga ed è spinta a giocarsi in una o in più forme di chiese, che non sono un tema della teologia (specificamente dell’ecclesiologia) ma rapporto tra prassi ecclesiale vivente, luogo di conversazione – logos ragionevole e critico. Gesti in parole, fatti, prassi credenti, vite, biografie, storie, luoghi, istituzioni, strutture, parole ragionevoli, pronunciabili, scambiabili.

La teologia non è la fede, che è il polo “privato” – che non è privato, ma personale, il rapporto profondo di ciascuno nella sua biografia con l’appello del Signore. Ma la teologia non è nemmeno il pubblico, istituzionale, “ecclesiastico”. Essa è, per proprio ministero, nella forma di chiesa, custode del comune, di un discorso possibile, di un conflitto possibile. In questo si vede benissimo la differenza tra una chiesa dogana e una chiesa ospedale da campo – per usare degli slogan –, una chiesa che ha fatto della teologia una forma di custodia autoritaria e antidemocratica del pubblico (di ciò che la chiesa doveva mostrare all’esterno, delle verità che doveva insegnare, di un Magistero, di una formulazione dogmatica), ha ucciso la teologia. Non c’è un futuro delle chiese senza affrontare tutto questo. Siamo all’altezza di questa sfida davvero epocale? Offrire un’esperienza che il comune è possibile e proficuo, che la sua inclusività consente di vivere, meglio e insieme… questo è il compito.

Ce lo auguriamo con una parola poetica, come ogni forma d’arte quasi sacramento del rimandare ad altro, a di più, a ciò che non è semplicemente nelle cose e nelle parole, ma mostra ciò che c’è in comune tra i nostri occhi, che guardano e leggono, il nostro cuore, la nostra mente e le cose/parole che l’artista ci dona; in questo caso si tratta di una poesia che si chiama La famiglia del poeta:

Ci amiamo tanto
ma ogni cozzo è un lampo,
qui dentro, stretti stretti,
vicini ogni momento
in un sacchetto annodato dalla sorte:
si sente forte come
per gli urti ticchettiamo!
Da noi non fa mai notte,
c’è sempre uno sprazzo che scocca
illuminandoci appena ci
tocchiamo.
Noi ci vogliamo bene,
ma di un bene che abbaglia
e certe volte scotta.
Noi siamo la famiglia
delle pietre focaie.

(Valerio Magrelli, Disturbi del sistema binario, Einaudi 2006)

Stella Morra

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