Tanti popoli, una grande famiglia

30
Apr

La ricchezza dell’incontro fra popoli e culture differenti: il punto di vista di una giornalista italo-siriana

Quando pensiamo a un popolo immaginiamo una comunità di donne e uomini che hanno in comune lingua, tradizioni, terra, modelli sociali e culturali. Popolo è una parola ponte, che indica un’unione, un riconoscersi simili, un voler costruire insieme valorizzando il passato e i suoi tesori e progettando un futuro che porti ulteriore bene per le nuove generazioni. La bellezza di questa parola sta nel fatto che pur indicando una moltitudine, prevede essa stessa un plurale, popoli. Visivamente la scena che si ha davanti è quella di tanti cerchi che però non si chiudono mai e finiscono per unirsi l’uno all’altro, andando a formare una sorta di catena, il popolo dei popoli, la grande famiglia dei popoli che è l’umanità.

In lingua araba esistono due parole che indicano un popolo e sono ummah e sha’ab. Umam, plurale di ummah, è usata sia per definire i credenti che si riconoscono in una stessa confessione, sia per definire comunità simili. Esiste, ad esempio, la ummah umana, ma anche la ummah della flora e della fauna, la ummah delle rose, come la ummah dei cavalli. Ummah rimanda a un concetto spirituale, mistico. La parola sha’ab, al plurale shu’ub ha una natura più laica, moderna, come a dire figli di gente che ha qualcosa in comune. Proprio questa accezione aiuta a comprendere la portata storica delle manifestazioni di piazza che hanno visto la partecipazione di migliaia di giovani dei Paesi arabofoni, dalla Tunisia al Bahrein, scandendo lo slogan “Al sha’ab yurid”, “Il popolo vuole”. Per un lettore occidentale, abituato alle mature democrazie del Vecchio continente, forse questa frase non suona particolarmente importante, ma per i giovani che vivono sotto regimi totalitari o teocrazie parlare di “popolo che vuole” vuol dire prendere coscienza di sé, affermare la propria volontà, lottare per la propria dignità e i propri diritti. Non è più solo Dio che vuole o il re, o il presidente, ma la gente comune, il sha’ab.

Da un punto di vista più squisitamente religioso, esiste nel Corano una aya, un versetto cioè, nel capitolo Al-Hujurat, Le Stanze intime, che recita “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e nazioni, affinché vi conosceste a vicenda”. Nel testo sacro per i fedeli musulmani l’uso della parola popoli al plurale, dunque, viene considerato in modo positivo. Include chiaramente il valore della diversità, delle comunità che proprio in quanto differenti, sono naturalmente spinte a incontrarsi e a conoscersi.

Confrontarsi con questi concetti non è mai semplice, soprattutto se si tiene conto del contesto, di tutte quelle realtà dove il “dividi et impera” ha trasformato i popoli in gruppi chiusi, tendenti ad escludersi gli uni con gli altri o a voler affermare la propria egemonia. Troppo spesso, purtroppo, si assiste a scontri e lotte di potere in nome di una presunta superiorità e anziché ponte, la parola popolo diventa un muro. Un muro invalicabile, che esclude lo sguardo, l’ascolto dell’altro e rischia di alimentare paure, pregiudizi e preclude la possibilità di conoscersi.

Esperienze come quella del giornalismo sul campo, come gli scambi culturali o gli studi all’estero, consentono alle persone di viaggiare, di incontrare culture differenti, di trovarsi in mezzo a popoli che hanno tradizioni, costumi, lingue diverse e che spesso affrontano anche la vita con approcci inediti rispetto al nostro sguardo. Proprio questa immersione regala la possibilità di vivere nuove esperienze, che permettono di guardare al quotidiano e alla vita stessa con occhi diversi. Questo cambio di prospettiva consente di vivere l’esperienza dell’empatia, di entrare nei panni degli altri, di osservare il mondo dalla loro angolazione. Il nostro parametro di giudizio cambia, si fa un passo indietro rispetto alle proprie certezze e si comincia ad ascoltare le ragioni degli altri. Si comincia persino ad avere una diversa predisposizione d’animo e questo non può che essere positivo.

Come fare, quindi, a favorire l’incontro tra popoli, la reciproca conoscenza, il desiderio di imparare gli uni dagli altri e costruire insieme un presente e un futuro migliori? In questo periodo storico così pieno di tensioni, con guerre che iniziano e non finiscono mai, con la minaccia costante di nuovi conflitti, con crisi come quella sanitaria, ambientale, economica che mettono l’umanità di fronte alla richiesta di una presa di coscienza e all’assunzione di responsabilità, è necessario un impegno comune, finalizzato a un cambiamento. Un cambiamento che veda coinvolti tutti i popoli, proprio come membri della stessa famiglia, la grande famiglia umana, dove ci si consideri tutti fratelli e sorelle, dove si lavori per obiettivi comuni, tra cui la fratellanza e la pace.

Asmae Dachan

Nella foto: Tra i profughi di un campo per sfollati interni, Siria, 2013. Foto di Asmae Dachan.

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