Sorridere luminosamente alla vita

19
Ott

Un grande sorriso che fa risplendere il viso aperto, illuminato da uno sguardo fiducioso sulla vita, sempre accompagnato dal simpatico saluto “Ciao proff!” che risuona nell’atrio della scuola, o per strada, lanciato dalla bici in corsa. È la prima immagine di Arouna che si è affacciata alla mia mente quando abbiamo pensato di dedicare questa storia di vita a chi ha fatto un lungo viaggio per arrivare ad una terra di speranza, abbandonando la propria terra d’origine a causa della fame e della guerra. Per arrivare sulle sponde di un Paese che possa darti possibilità di esistenza: e sentire che sei parte di una umanità che accoglie la vita che Dio dona in ogni pezzetto di mondo, far tua la gioia di vivere in questa umanità. Non è l’esperienza di tutti i rifugiati, ma lo è di molti: diamo voce ad Arouna in nome di tutti e di tutte coloro che ce l’hanno fatta, sono qui tra noi a vivere la loro esistenza di giovani appassionati della vita, credenti nell’unico Dio chiamato con diversi nomi. A far risuonare il fresco saluto sorridente di un Dio che guarda con gioia alla sua umanità accogliente. Abbiamo pensato di lasciare la forma che Arouna ha scelto per comunicare la sua esperienza, in uno scritto semplice e lineare, rivisto con quei suoi amici volontari che durante l’anno lo hanno aiutato a studiare per arrivare con fatica, ma anche con grande soddisfazione a superare l’esame di Licenza Media. E ora, guardare ancora avanti, con fiducia.

 Sr. Federica Cacciavillani

 

Il mio Paese è il Mali che in bambarà, la mia lingua, significa “ippopotamo”. La capitale del Mali è Bamako che vuol dire “spalla di coccodrillo”. Il Mali è molto diverso dall’Italia: nella mia terra ci sono molti animali come il leone, il coccodrillo, il cammello, l’elefante e molti altri. Nel nord del Mali c’è il deserto, dove c’è ancora la guerra.

Nel Mali io facevo il muratore con mio padre fin da quando ero piccolo: poi nel 2012 mio padre, quando avevo 17 anni, è morto in un incidente. Io sono il fratello maggiore e sono dovuto partire dalla mia casa perché non avevo più un lavoro e senza lavoro non c’è futuro per me e per la mia famiglia. In Mali mi aspettano mia madre, i miei due fratelli e le mie due sorelle.

Dal Mali sono andato in Niger in pullman, ho viaggiato per due o tre giorni, non mi ricordo bene. Per potermi pagare il viaggio verso la Libia ho lavorato per un camionista, scrivevo i nomi delle merci che caricava. Lui poi mi ha portato in Libia, abbiamo attraversato per quattro lunghi giorni il deserto. Il viaggio è stato duro, non avevamo molta acqua né cibo: durante il giorno c’era molto caldo e di notte molto freddo, inoltre il vento era sempre forte.

Una volta arrivato in Libia ho lavorato come pastore, guardavo le mucche di un uomo. Questo lavoro mi piaceva, mi piacciono molto le mucche e gli animali in generale (non quelli pericolosi però!). Il mio padrone lavorava per il governo, era del partito di Gheddafi. Quando sono arrivato io in Libia la guerra era in un momento di calma, ma poi ci sono stati nuovi “casini” e il mio padrone è dovuto andare via con la sua famiglia, perché loro, quelli dell’Isis, prendevano tutti quelli del governo e li uccidevano senza farsi tanti problemi: uccidevano grandi e piccoli, mettendo le bombe nelle loro case. Io stavo dando da mangiare alle mucche: quando sono rientrato in casa per prendere il mangime, ho trovato delle persone che mi hanno preso e mi hanno portato via: sono stato in prigione per tre mesi a Tripoli.

In prigione c’erano tante persone che venivano da molti paesi dell’Africa, dal Gambia, dal Mali, come me, dall’Algeria, dal Sudan, dall’Eritrea e molti altri ancora: era difficile stare in così tanti nella prigione. Hanno obbligato i ragazzi che erano in prigione con me a caricare le bombe nei camion per fare la loro guerra. Quelli che sono andati a caricare le bombe, dopo il caricamento li hanno liberati. Tanti di loro però sono morti facendo questo perché c’erano esplosioni, Quelli che, come me, si sono rifiutati di caricare le bombe, sono stati messi sui camion che andavano verso il mare. Ci hanno lasciato di notte sulla spiaggia con dei piccoli gommoni: avevano dei fucili con loro e hanno detto che se non fossimo partiti, ci avrebbero uccisi tutti. C’erano tra noi alcune persone che, venendo da paesi come il Gambia o il Senegal dove c’è il mare, sapevano un po’ guidare la barca e ci hanno guidato. Abbiamo viaggiato per molto tempo in mare, non riesco a ricordare quanto…

Poi siamo arrivati in Sicilia, era il 5 ottobre 2014: là ci aspettavano degli italiani, o europei, non so, e ci hanno preso in una grande barca, hanno controllato che nessuno di noi avesse armi, e nessuno di noi ne aveva. Hanno controllato la nostra salute, infatti c’erano alcuni di noi che avevano delle malattie, perché in prigione non c’era una buona aria. Nel porto siamo rimasti per 6/8 ore senza sapere nulla: lì ho conosciuto altri maliani, come Kamara e Diarra, con i quali abito ora: poi ci hanno fatti salire direttamente su un pullman senza dirci dove ci avrebbero mandato. Una volta scesi, dopo due giorni di viaggio, c’era scritto “Hotel Sorgenti”: eravamo a Bolzano Vicentino. Ero stanco morto. Per me era tutto nuovo e parlavo solo bambarà e francese. A Bolzano siamo rimasti per due settimane, dopo siamo stati trasferiti a Vicenza, vicino all’ospedale, con la cooperativa “Con te”, per cinque mesi. Con loro ho incominciato  a frequentare i corsi di italiano a scuola. Poi siamo stati traferiti a Lonigo con la cooperativa “Il mondo nella città”: con loro siamo rimasti tre mesi; anche da loro andavo a scuola per due volte la settimana. A maggio 2015 siamo arrivati a Vicenza, a casa del vescovo, e a settembre ho iniziato a frequentare il corso per la terza media, perché il mio italiano era buono. Da settembre a dicembre al mattino frequentavo la scuola e al pomeriggio facevo il volontario per il Comune di Vicenza, aiutavo a pulire le strade del centro. Questo lavoro mi piaceva, ma Vicenza è una città in cui le persone odiano gli stranieri. Per strada infatti molte persone ci guardavano e non sembravano felici che noi facessimo questo lavoro: sentivo che tra di loro dicevano che non capivano perché il Comune ha dato il lavoro a noi e non agli italiani senza lavoro, ma questo per noi era solo volontariato. Questo volontariato io l’ho fatto per ringraziare questo Paese, perché ci ospitate in casa e ci date da mangiare e dei vestiti. Io comunque sono felice di essere qui con i volontari Caritas che mi aiutano a fare i compiti, però non conosco molte altre persone italiane. In Italia mi sembra più difficile conoscere le persone. In  Mali se ci si incontra al parco o per strada ci si saluta e si parla, così ci si conosce, ma qui è più difficile. Io vado a correre al parco Querini, ma lì se uno non ti conosce non ti parla, così per me è difficile conoscere persone nuove. Però spero di conoscerne in futuro, perché sono fortunato e lo Stato italiano mi ha dato la Protezione Umanitaria; tra poco avrò il permesso di soggiorno e spero tanto di studiare alla scuola superiore l’anno prossimo, se avrò un lavoro per pagarmi i libri e il resto. Inshallah. Grazie per aver ascoltato la mia storia.

Arouna Camara

 

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