Suor Carol Cooke racconta la sororità e la fraternità vissute nella comunità monastica di Deir Mar Musa fondata da padre Dall’Oglio
Per la rubrica “In ascolto” di questo numero abbiamo intervi-stato suor Carol Cooke, monaca cristiana maronita libanese del monastero di Deir Mar Musa (Siria), già ospite di Presenza Donna nel 2015.
Come nasce e quale obiettivo ha la comunità monastica di Deir Mar Musa?
La nostra comunità monastica è nata dalla chiamata di Cristo ad un giovane gesuita, Paolo Dall’Oglio, una chiamata di amo-re per l’Amore perché si prendesse a cuore l’islam. Padre Paolo fu mandato nel Medio Oriente dai suoi superiori per immergersi nel mondo musulmano, imparare la lingua araba e vivere questa missione. Quando padre Dall’Oglio insieme a p. Jacques Mourad (all’epoca seminarista) iniziarono la vita monastica a Mar Mu-sa nel 1991 non pensavano ad una presenza femminile, fino a quando una volontaria si pre-sentò con una lettera nella quale il card. Martini chiedeva la sua accoglienza in comunità. Padre Paolo percepì in quella richiesta l’invito dello Spirito ad aprirsi ad un nuovo modo di vi-vere la vita monastica, uomini e donne in un’unica comunità. Nel 2012 poi quando p. Paolo lasciò la Siria chiese ad una monaca, suor Houda, di essere responsabile della comunità fino al primo capitolo, durante il quale è stata eletta responsabile. Che dopo p. Paolo, la prima persona responsabile di tutta la comunità – anche dei monaci – sia stata una donna non era scontato. Il fatto che i fratelli, per la maggior parte sacerdoti, abbiano scelto una donna come responsabile della comunità è una prova di quanto hanno interiorizzato i valori del ruolo della donna nella Chiesa e la sua uguaglianza con l’uomo. La particolarità della nostra comunità è proprio che i monaci e le monache formano una sola comunità, pur mantenendo ambienti distinti, ed è una vocazione basata su tre pilastri: la preghiera contemplativa, il lavoro manuale e l’ospitalità sacra. L’obiettivo è la costruzione dell’armonia islamo-cristiana. Questa forma di vita non è stata facile da capire e da accettare da par-te della Chiesa, locale e mondiale. Il vescovo di allora ha visitato spesso la comunità per conoscerci e si è accorto che l’ospitalità ci aiuta. La comunità mi-sta favorisce l’accoglienza di uomini e donne, ed il modo in cui viviamo l’ospitalità, cioè accogliendo proprio negli ambienti della comunità, aiuta a vivere delle relazioni più autentiche. Questo stile ha aiutato anche i musulmani più osservanti a sen-tirsi in famiglia con noi.
Cosa significa per te consacrata essere sorella in Siria?
Da libanese sono andata a vivere in Siria, dove noi cristiani siamo una minoranza e quando c’è una minoranza c’è sempre la tendenza alla chiusura per difendere la propria identità. Esse-re sorella per me lì significa an-dare controcorrente per vivere da fratelli e sorelle non solo dentro la comunità, curando le relazioni esterne fino a farne delle amicizie anche con i musulmani. Per me era più facile perché provenivo da un contesto in cui i cristiani non sono una minoranza, ma per i cristiani con una memoria comunitaria carica di esperienze negative, come i di-scendenti dei genocidi armeno e siriaco, è più complicato perché significa essere fratello o sorella di qualcuno che non è della stessa religione e che si percepisce come nemico. Partendo dalla mia esperienza di libanese figlia di generazioni occupate dai siriani per trent’anni, riesco ad aiutare i fratelli della mia fede a superare la paura e l’odio per incontrare gli altri e non rimanere prigionieri della propria storia e del proprio dolore, ma anche a percepire il dolore dell’altro e il lavoro di Dio nella vita dell’altro. È un doppio passaggio di cui sono grata al Signore. Un altro aspetto dell’esse-re sorella in un contesto sociale e culturale segnato dalla guerra e dalla sofferenza e significa essere vicina alle persone che soffrono in diversi modi: la precarietà della vita, le sofferenze economica, psicologica, spirituale… Hanno tante domande sul male e su Dio e c’è un grande bisogno di sostegno oggi soprattutto psicologico e spirituale.
È diverso esserlo in Italia, dove vivi ora per lo studio del dottorato?
Negli ultimi anni sono stata in Siria d’estate, il resto dell’anno sono in Italia e qui vivo da studentessa. Cerco di vivere la sorellanza attraverso la scrittura del mio dottorato in islamologia: lavoro sull’appello di Dio all’uomo nel Corano, un lavoro che mi rende sorella di ogni credente musulmano, ma anche di ogni cristiano che vorrebbe meglio comprendere il Corano. La mia esegesi vuol essere un ponte per un cristiano che non capisce la lingua e lo stile del Corano. L’islam in Italia è minoritario, quindi es-sere sorella qui significa andare verso i musulmani nelle loro diversità. Qui sono a contatto soprattutto con le persone che lavorano nell’ambito del dialogo ed è facile sentirsi sorella di persone che con la loro vita mostrano un volto molto bello dell’islam, ma sono anche a contatto con realtà più problematiche. Quando nel vicinato c’è una famiglia di migranti che ha bisogno, sanno che siamo qui.
Nella quotidianità, da cosa si inizia o si può iniziare ad essere sorelle? Quali piste seguire?
Si inizia da empatia, ascolto, con-divisione, dalla solidarietà.
a cura di sr. Naike Monique Borgo