Manifesto in rosa per una nuova uguaglianza
“Sorelle, a voi non dispiace / ch’io segua anche stasera / la vostra via. / Così dolce è passa-re / senza parole / per le buie strade del mondo / per le bianche strade dei vostri pensieri / così dolce è sentirsi / una picco-la ombra / in riva alla luce./ […] Sorelle, se a voi non dispiace / io seguirò ogni sera / la vostra via / pensando ad un cielo notturno / per cui due bianche stelle conducano / una stellina cieca / verso il grembo del mare”.
A quali sorelle si rivolge Antonia Pozzi, giovanissima poetessa di diciott’anni, chiedendo con voce sommessa e timida di poter attraversare in loro compagnia le buie strade della vita? A quali sorelle si rivolge quasi supplichevole chiedendo di essere loro, le stelle luminose, a prendere per mano lei, smarrita stellina cieca, per condurla nel grembo del mare? C’è una ricerca di sicurezza e di pace in questi versi, in cui l’ombra cerca con un fremito di paura di raggiungere la luce, in cui il cielo sembra lontano e l’anelito è naufragare dolcemente nell’ab-braccio del mare.
Sorelle di sangue, sorelle di adozione, sorelle nel dolore, nella sensibilità, nella fede, nella condivisione? È una richiesta d’aiuto, quella di Antonia, figlia unica, di famiglia benestante, libera, fin troppo amata, in quel modo eccessivo che le ha tarpato le ali, facendola davvero naufragare in una nebbiosa mattina a soli ventisei anni. E non c’era nessuna sorella accanto a lei Sorella: un legame così profondo che è riduttivo ridurre a solo le-game di sangue, che nel lungo percorso storico e individuale della condizione femminile ha rappresentato qualcosa di “speciale” che solo da poco tempo si sta analizzando, allargando e contestualizzando, parlando finalmente di “sorellanza”. Chiara d’Assisi può davvero esserne considerata la madre, o meglio no: non ha mai voluto essere chiamata “madre”, ma “sorella” come tutte le “sorelle povere” che hanno seguito il suo esempio e le sue scelte così innovative, forse troppo per il 1200 in cui è vissuta. Innovative proprio a partire dal termine “sorella” che esprime il distacco rispetto al monachesimo femminile di matrice benedettina, in cui le monache erano “madri”. Sparisce ogni gerarchia: sorelle tutte, di nome e di fatto. Nei suoi scritti, nelle lettere e nella regola (la prima scritta totalmente da una donna) Chiara, da vera sorella, non ordina né parla dall’alto, piuttosto consiglia e raccomanda. Non ritiene le donne faci-le preda del peccato, mostrando invece rispetto per le esigenze del corpo, cercando di lenire dolori e sofferenze sia delle consorelle sia delle tante donne, le “sorelle benvenute” che bussavano alla porta di San Damiano, povere, umiliate, disprezzate. E si inteneriva davanti ai bambini di Assisi tremanti di freddo, che chiedevano aiuto, i tanti “fratellini” di Gesù bambino a cui riservava coccole e sorrisi.
È sorprendente anche il suo atteggiamento di sorellanza e di uguaglianza nei riguardi di quelle monache, che, pur vivendo nel monastero, uscivano regolarmente per i servizi: sono le sorores extra monasterium ser-vientes, le sorelle che servivano fuori dal monastero. Sorelle come tutte, non serve di grado inferiore. Non sono distinte nell’abito (come invece le servitiales benedettine) e hanno il permesso di non andare scalze come le compagne in monastero: Chiara ritiene che le strade sconnesse e i lunghi tragitti da affrontare a piedi. Sono perciò dispensate dai digiuni, non devono chiedere alcun permesso per uscire e possono avere normali frequentazioni con i laici, come si desume da una serie di raccomandazioni presenti nella Regola: i soggiorni di queste sorores fuori dal monastero non siano troppo prolungati, sia mantenuto un contegno mode-sto lungo il cammino, ma è incoraggiato rivolgere consigli, preghiere e brevi esortazioni a chi incontrano, senza distinzioni che si tratti di uomini e donne. Si fa strada l’idea che “essere sorelle tutte” sia complementare, non riduttivo, rispetto all’essere madri.
Facciamo un salto in avanti di settecento anni. Europa, 1919: da pochi mesi è finita la Grande Guerra, che non lascia dietro di sé solo macerie, feriti, mutilati, milioni (forse venticinque) di morti. Lascia una scia profonda di odio, rancore, trattati di pace durissimi verso i paesi sconfitti, blocchi economici che i vincitori impongono ai vinti, che sprofondano nella fame più nera intere popolazioni. È il 15 maggio del 1919 quando a Londra Englantyne Jebb, una colta, anticonformista e distinta signora di quarantadue anni, viene arrestata con l’accusa di aver messo in pericolo la sicurezza del suo paese. La corte ha appena finito di ascoltare il magistrato d’accusa elencare i rea-ti che hanno portato la donna in tribunale: sprovvista della necessaria autorizzazione, Englantyne pubblicava e distribuiva un volantino con la fotografia di un bambino austriaco, un nemico, uno degli oltre quattro milioni in tutta Europa oppressi dal morso della fame a causa del blocco. Venuta a conoscenza delle drammatiche conseguenze e profondamente scossa dalla notizia che a Vienna madri di-sperate erano giunte a uccidere i figli appena nati perché nell’impossibilità di nutrirli, l’imputata, per salvare quelle creature, decideva l’impossibile: con soli dieci sterline in tasca, assieme alla sorella Dorothy costituiva un fondo di soccorso. La fotografia e il messaggio continuamente ripetuto da Englantyne – “Save the Children” – susci-tano una fortissima reazione a catena e, al di là dei nazionalismi e dell’iniziale chiusura di un’opinione pubblica poco pro-pensa ad aiutare gli ex-nemici, in breve sono raccolte centinaia di migliaia di sterline, subito destinate ai bambini austriaci, tedeschi e, successivamente, perfino bambini russi, di quella Russia che, dopo la rivoluzione leninista, era vista come il peggior pericolo per l’Europa. Scrive Englantyne Jebb nel pro-gramma dell’associazione: “Si dice spesso che gli obiettivi di Save the Children sono impossibili da raggiungere, che ci sono sempre stati bambini che soffrono e che sempre ci saranno. Lo sappiamo. Sono impossibili solo se permettiamo che ciò sia così. Solo se rifiutiamo di provarci. Io, che non sono madre, voglio essere la sorella maggio-re di questi bambini e delle loro mamme”. Sempre nell’estate del 1919, Eglantyne Jebb, anglicana, scrive a papa Benedetto XV per avere il supporto della Chiesa contro la carestia. In risposta al suo appello, poche settimane dopo il papa chiede a tutte le chiese del mondo di raccogliere fondi per l’infanzia e l’anno successivo, nell’enciclica Annus iam planus est, loda pubblicamente Save the Children per il suo lavoro. È la prima volta nella storia che la Chiesa sostiene una causa promossa da un’organizzazione non confessionale, per di più voluta da una donna non cattolica. Per merito di Eglantyne comincia così a maturare l’idea che il bambino, ogni bambino, ha valore per se stesso, come persona con proprie peculiarità affettive, psicologi-che, intellettive. Proprio per marcare questa svolta epocale lei stessa elenca quegli articoli, già pubblicati a Ginevra nel 1924, che solo nel 1989, per volontà delle Nazioni Unite, diventeranno la Carta universale dei diritti del bambino. Libertà, uguaglianza, sorellanza: un grido in rosa capace di donare un raggio di luce e speranza al mondo intero.
Chiara Magaraggia