Un percorso storico e artistico sulla figura dell’infermiera, sorella che si prende cura sempre
Non so come sia capitato lì. Ero sola (il Covid era in una fase acuta) nella sala di aspetto di uno studio medico, attendendo il mio turno per una visita e un poster ha attirato la mia attenzione. Non so come da Rieti sia capitato a Vicenza, ma l’immagine mi ha subito catturato. Una è una figura che ci è diventata improvvisamente familiare (quasi che prima la professione dell’infermiera quasi non esistesse) rivestita di quei dispositivi sanitari che ora tutti conosciamo. L’altra figura l’ho riconosciuta subito e mi sono ricordata di esserne stata attirata fin da bambina, perché a lei, inglese, il padre, medico e pioniere dell’epidemiologia, aveva dato il nome della città dov’era nata, una città che anch’io amo, Firenze. Lei è Florence Nightingale, nata nel 1820, duecento anni fa. Ma c’è qualcuno che da noi si sia ricordato di lei? Nessuno. Eppure, Florence merita un posto di primo piano nella storia dell’umanità, intesa nel suo significato originario: sentimento di fratellanza, di cura, di attenzione verso l’altro/ l’altra in difficoltà. Sì, perché sister Florence è stata colei che ha “inventato” la professione moderna dell’infermiera. Che cosa abbia spinto una giovane di buona famiglia, amante dell’arte e del bello, a lasciare gli agi del suo stato e alcune allettanti proposte di matrimonio, per gettarsi nel clima di carneficina di una guerra fa parte, penso, di quell’insondabile processo interiore che a volte ci spinge a scelte che razionalmente sembrerebbero impensabili. Quella dell’infermiera era ancora nell’Ottocento una professione pochissimo stimata, poco più che vivandiera o lavandaia sia negli ospedali cittadini sia in ambito militare. Sia per una maggiore razionalizzazione dell’assistenza medica che comincia a basarsi su criteri di organizzazione, igiene, separazione dei malati e differenziazione delle cure, sia per una maggiore sensibilità nei riguardi della sofferenza e del dolore frutto della cultura romantica, ecco che sempre più si rende necessaria una figura intermedia fra medico e paziente. Già poco più che ventenne Florence avverte tale carenza, e, visto che gli studi di medicina erano ancora vietati alle donne, studia con grande impegno sui libri del padre, con l’obiettivo di migliorare le cure mediche nell’ambito degli ambulatori per le classi disagiate e in quelli per gli infortunati nel mondo del lavoro. Insomma, la sua grande intuizione è quella di applicare il metodo scientifico all’assistenza infermieristica, creando di fatto una nuova professione, complementare e autonoma rispetto a quella medica. La “prova del fuoco” è la sua decisione – quasi scandalosa per l’epoca – di partecipare, lei donna, alla guerra di Crimea, nel 1855, dove organizza con determinazione, grinta e eccezionali doti organizzative un ospedale da campo. È in questo contesto, in mezzo a feriti, mutilati, sofferenti nel corpo e nell’anima che sorella Florence diventa per tutti “la signora della lampada”, che di notte silenziosa e vigile si muove fra i letti dei degenti, supportandoli non solo con una cura fisica, ma anche con una cura fatta di attenzione, di incoraggiamento, di un sorriso, ispirata anche da un profondo sentimento religioso.
Passeranno quattro anni: e mentre Florence, tornata in Inghilterra, si dedicherà a creare strutture educative per formare le infermiere, il 24 giugno 1859 un commerciante, filantropo e viaggiatore svizzero Henry Dunant, è testimone della sanguinosa battaglia di Solferino durante la Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana. Al calar della notte, nel vicino paese di Castiglione delle Stiviere (oggi sede del Museo della Croce Rossa) nella confusione generale vede ammucchiati più di 9000 feriti, che riempiono le strade, le piazze, i gradini delle case. Entra in chiesa: feriti dappertutto. Chi urla del dolore, chi prega disperato un po’ di aiuto, chi agonizza, tutti invocano un goccio d’acqua. È l’incontro brutale, sconvolgente con gli orrori della guerra. Ispirato anche dall’esperienza della Nightingale, ha la grande intuizione che sarà alla base della fondazione della Croce Rossa. Osservando con raccapriccio che gran parte dei feriti morivano per mancanza di cure tempestive sullo stesso campo di combattimento, matura l’idea rivoluzionaria di permettere il soccorso immediato, facendosi riconoscere da un segno immediatamente riconoscibile; un bracciale bianco con una croce rossa, i colori della sua Svizzera e, nello stesso tempo, un simbolo universale. Scrive ai governanti e ai sovrani: “Non ci può essere modo, in un periodo di pace di costituire una società di soccorso il cui scopo sia di far prestare le cure ai feriti in tempo di guerra da volontari zelanti e ben preparati?”. Ed è talmente forte la sua convinzione e la forza di persuasione, che riesce a far diventare questa sua idea una grande convenzione internazionale. I volontari saranno quasi esclusivamente volontarie: le donne sono le prime ad aderire come infermiere volontarie alla Croce Rossa e la figura della crocerossina, a volte edulcorata a figurina romantica, idealizzata rispetto alla reale portata della sua opera o, peggio, strumentalizzata dalla propaganda bellica, diventerà soprattutto durante la Prima guerra mondiale una figura popolare. Si tende a dimenticare, invece, il ruolo sociale e civile che le crocerossine svolgono sempre in tempo di pace presso scuole, ospedali, ambulatori, cura dei deboli, emarginati e successivamente nel soccorso dei profughi, nelle navi dei migranti in fuga, nella cura e prevenzione contro l’uso degli stupefacenti, nella Protezione Civile. “Sorella” è il nome con cui, ieri come oggi, si chiamano le infermiere volontarie, senza distinzione di ceto o di grado.
Ma… la popolarità dell’infermiera di professione non va di pari passo con quella delle “sorelle” della Croce Rossa. Ci vorrà un trauma collettivo per scoprirne il valore. Marzo 2020: un’immagine appare sui muri di numerose città, riportata nei giornali, toccando il cuore degli italiani: l’ha ideata il grafico Franco Rivolli e immediatamente è stata adottata dall’Associazione Carabinieri. Una giovane donna con mascherina e camice azzurro anticontagio culla con espressione tenera e appprensiva l’Italia, prostrata, malata, spaventata dal Covid. Ricorda da vicino uno dei manifesti conservati nel Museo della Croce Rossa. Ed è nel corso di questo dramma che l’opinione pubblica sembra finalmente accorgersi del ruolo indispensabile e infaticabile delle infermiere. E come per rispondere a un ignoto segnale, i muri di tutte le città, in Europa e in America, fioriscono di immagini. Artisti di strada, dai più celebrati agli anonimi si mettono al lavoro. Misterioso, notturno, sempre con il cappuccio di una felpa che ne nasconde il viso, lascia il suo segno colorato sui muri dei luoghi più impensati e spesso più critici del mondo: e i suoi diventano messaggi civili comprensibili a tutti, come solo l’arte sa fare. Lui, Banksy, inglese, il massimo artista di street art, ha voluto lasciare una sua opera per ricordare il tributo delle infermiere dell’ospedale di Southampton impegnate nella lotta contro il Covid. Una bambola vestita da infermiera con mascherina, mantello e la croce rossa – unico colore presente – è tenuta in alto con orgoglio da un bimbetto vestito con una salopette di jeans, preferendola ad altri supereroi – Batman e l’Uomo Ragno – dimenticati in una cesta. Ancora un bambino, come la bimba che si staglia sul grigio del cemento, che i palloncini fanno volare al di là del muro che divide Israele dai Territori Palestinesi. E che dire della celebre Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer riapparsa su un muro di Bristol, con tanto di mascherina e, al posto del famoso orecchino, un ferro tagliente che le fora l’orecchio, eco dei lamenti, delle lacrime di tanti sofferenti.
Sorelle e finalmente riconosciute come insostituibili professioniste nella cura.
“Sorelle, se a voi non dispiace/ io seguirò ogni sera/ la vostra via/ pensando a un cielo notturno/ per cui due bianche stelle conducano/ una stellina cieca/ verso il grembo del mare”.
I versi di Antonia Pozzi, inquieta, giovanissima poetessa, per esprimere anche con la poesia il nostro grazie.
Chiara Magaraggia