Shalom, in Qiddush Ha-Shem

21
Gen

Riccioli. Quelli che cadono lungo le orecchie, da una testa rasata, che accompagnano la lunga e folta barba.

Pensando di incontrare un rabbino di Israele, questa è la prima immagine che mi era apparsa alla mente, in quella strana casa delle suore Comboniane di Betania così bella ma anche così tremendamente divisa: da un muro alto otto metri, nel giardino. Che aveva precluso la possibilità ai bambini cristiani e musulmani di frequentare quella scuola materna che da tanti anni serviva l’educazione dei piccoli e costituiva un ponte tra popoli e culture.

I riccioli sono arrivati: ma legati, a coda di cavallo, sotto una strana kippà variopinta. Un rabbino di Israele?! Sì, un rabbino di Israele. Che ha iniziato a parlare con determinata dolcezza nel suo inglese americano, con qualche frase in ebraico moderno, con citazioni in ebraico antico dalla Torah.

Rabbi Jeremy Milgrom ci aveva spiazzati: non era come quegli ebrei ortodossi che al muro del pianto sputavano sulle scarpe dei pellegrini non ebrei, o come quei ragazzi della scuola rabbinica che non avevano alzato lo sguardo su di noi, volgendolo dall’altro lato della strada per non rendersi impuri incrociandoci anche solo con gli occhi.

Era comunque un rabbino: lo garantiva suor Alicia Vacas Moro, che ce lo aveva presentato come amico e compagno di impegno, di missione in quelle periferie del mondo che erano presenti anche in Israele, ma messe a tacere, nascoste, come si fa con la polvere sotto il tappeto. Rabbi Jeremy aveva fondato con altri rabbini, nel 1988, il Movimento dei Rabbini per i Diritti Umani, sulla scia di altre organizzazioni religiose che davano voce alla non violenza dell’ebraismo: Oz ve-Shalom, Forza e Pace, degli anni Settanta, l’associazione Netivot Shalom, degli anni Ottanta, molto vicina ad alcune yeshivot (scuole religiose) in Israele.

Anche il mondo degli ebrei di Israele, il mondo credente, non era monolitico come avremmo potuto pensare, o come alcuni volevano farci credere. Da sempre ci sono voci che si alzano per pregare “Shalom”, pace, anche tra gli ebrei e i rabbini di Israele; che sfilano con la richiesta di “fermare l’embargo a Gaza”, o per chiedere “la fine della demolizione delle case dei palestinesi”.

Un impegno sociale per la giustizia, per il rispetto dei diritti umani, per la difesa dei piccoli e poveri della vita che spesso appartengono a un altro popolo, a un’altra fede, con i quali non si condivide nemmeno la possibilità di comprendersi attraverso una lingua comune. Occorre infatti l’intervento di suor Alicia, che tra le altre lingue conosce anche l’arabo, per permettere a rabbi Jeremy di comunicare con quella porzione di piccolo popolo che abita in Israele e che lui sceglie di difendere: quei beduini Jahalin continuamente fatti sgomberare dai loro territori di vita, che fino al 1967 avevano, a fatica, potuto accompagnare le greggi in transumanza nella valle del Giordano, ma che dopo l’occupazione della West Bank da parte dell’esercito israeliano videro i loro accampamenti distrutti nell’area a sud di Gerusalemme est, con la maggioranza dei pascoli rapidamente cintata e requisita, con le aree circostanti le fonti d’acqua dichiarate riserve naturali e chiuse alla pastorizia. Il programma della massiccia opera di colonizzazione costringeva i beduini Jahalin a mutare il loro tradizionale modo di vivere e la pratica della pastorizia. Dal 1975 entrò in fase operativa l’insediamento israeliano di Maale Adumin, tra Gerusalemme e Gerico, che negli anni ‘90 si dotò anche di un’area industriale e che oggi arriva a più di trentamila abitanti. Respingendo e relegando i beduini Jahalin in aree programmate, in pieno deserto, inadatte alla pastorizia, con la seconda Intifada le distruzioni degli accampamenti e gli sgomberi forzati si intensificarono, determinando in pratica l’impoverimento progressivo e inesorabile di questo popolo, costretto alla miseria e all’ignoranza.

Rabbi Jeremy non si era accorto di loro: viveva in Israele dall’età di 15 anni, da quando era arrivato dagli Stati Uniti dove era nato nello stato della Virginia, ma in tutti quegli anni di vita in Israele non si era mai accorto di questi poveri della porta accanto. È emblematico il racconto della conversione dello sguardo sulla realtà di quest’uomo, che, grazie alla sua spiccata intelligenza e allo spirito di competizione che lo caratterizzava, era stato avviato dal padre agli studi rabbinici e aveva vinto il viaggio premio in Israele risultando vincitore della gara di cultura ebraica tra molti giovani ebrei americani.

A 15 anni Jeremy andò in Israele, e vi rimase per un intero anno, frequentando la scuola superiore. Chiese poi ai genitori di poter rimanere in quel Paese che sentiva suo, dove aveva ritrovato radici, dove si sentiva parte di un popolo con una terra.

E lì rimase, facendo anche il servizio militare per tre anni, richiesto negli anni ‘70 ai giovani israeliani, e continuando a formarsi come rabbino, studiando le Scritture, frequentando la sinagoga e le scuole rabbiniche.

Per molti anni Jeremy racconta di non essersi accorto di quei popoli che abitavano in Israele prima della costituzione dello Stato ebraico. Ma la sua esperienza di vita dell’essere stato parte della minoranza ebraica negli Stati Uniti, ad un certo momento della sua esistenza lo ha portato a una vera e propria conversione: riconoscere le minoranze che in Israele venivano schiacciate, denigrate, a cui venivano lesi i più basilari diritti umani.

L’impegno per la vita dignitosa dei beduini Jahalin lo anima, lo porta a collaborare con cristiani, con musulmani, con non credenti: ritrovando nella comune radice di umanità il motivo di un impegno comune per la pace e la giustizia, che parte da piccoli progetti, come la scuola di gomme per i bambini dei Jahalin, come i pannelli solari per dare energia al campo in cui i beduini vivono: scuola distrutta dalle ruspe dell’esercito per più volte, pannelli requisiti dai militari per “motivi di sicurezza”…

Luccicano gli occhi di quest’uomo che si è lasciato interpellare dalla sua storia personale e dalla storia di quella porzione di umanità che viveva vicino a lui, in una terra dove coesistono credenti guerrafondai e credenti non violenti. Luccicano di commozione quando parla dei piccoli del campo dei beduini che andavano a scuola, dell’età dei suoi nipotini, ma anche quando parla di come la concentrazione sui propri diritti che prevaricano quelli degli altri porti a ciò che la tradizione ebraica della Torah chiama “Chillul haShem”, il disonorare il nome di Dio. Luccicano quando racconta dell’impegno dei rabbini per i diritti umani per i migranti, per i rifugiati, per i palestinesi, per i poveri cui vengono calpestati i diritti fondamentali di vita e di dignità nella società israeliana. Luccicano quando parla dei soldati israeliani, della difficile e quasi impossibile scelta dei giovani di fare obiezione di coscienza a questo lungo servizio militare che coinvolge tutte le giovani generazioni del suo Paese: quanta fatica per la sua primogenita rifiutarsi di prestare il servizio di leva, ma quanta soddisfazione poter abbracciarla senza il peso della divisa militare che tanto aveva osteggiato!

Rabbi Jeremy fa luccicare gli occhi di chi lo ascolta nei tanti incontri a cui partecipa in varie parti del mondo, dove è chiamato a dar voce non a se stesso ma a quella parte di ebrei israeliani, uomini e donne di fede, che si impegnano per la pace e la non violenza.

Momenti di vita personale si intrecciano nel racconto di tanti episodi di storia dei nostri giorni, in Israele e nel mondo, in quell’intreccio fecondo che è lo stare per scelta dalla parte dei poveri, facendosi voce e corpo di percorsi di dialogo interreligioso nell’incontro con persone del mondo musulmano, del mondo buddista, del mondo cristiano nelle sue diverse formulazioni. Rabbi Jeremy ci comunica tutta la forza di fede che ha coinvolto e coinvolge la sua vita nel percorso di riconciliazione e dialogo tra le fedi, tra i popoli, tra gli uomini e le donne di buona volontà.

Qiddush Ha-Shem: il precetto dell’ebraismo della santificazione del nome di Dio passa attraverso il nostro renderci santi, vivendo nella santità del Giusto.

Nel dialogo che crea ponti di Parola è forse oggi il nostro percorso di santità.

Sr. Federica Cacciavillani

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