500 anni: molti ma non necessariamente troppi. Nel 2017 le chiese evangeliche di tutto il mondo celebrano il quinto centenario della Riforma protestante; per la verità, sarebbe scorretto dire che questo momento di festa riguarda solo il protestantesimo. Lo scorso 31 ottobre in Svezia, nella città di Lund, un incontro tra i responsabili della Federazione luterana mondiale, organismo di collegamento delle chiese luterane nel mondo, e Papa Francesco ha ufficialmente “aperto le danze”. Erano presenti rappresentanti di molte altre denominazioni protestanti, a sottolineare che la Riforma nasce e si sviluppa come fenomeno plurale e, ancora oggi, vive in tale pluralità. La presenza del papa, tuttavia, accentua uno dei caratteri fondamentali di questo cinquecentenario: l’ecumenismo – inteso come cultura del confronto e del dialogo – che rappresenta, forse, l’elemento principale che le chiese hanno acquisito negli ultimi cento anni nel rapportarsi le une verso le altre. Ed è proprio grazie a questa attitudine per il dialogo che la Riforma può oggi essere guardata non più con sospetto, bensì, come lo stesso Francesco ha sottolineato, come portatrice di elementi che arricchiscono tutte le chiese.
Per quanto riguarda le chiese nate dalla Riforma protestante, tuttavia, l’ecumenismo non è l’unico grande cambiamento che si può riscontrare in questo quinto centenario; se ne potrebbero sicuramente enumerare molti, ma, mi pare, quello più notevole riguarda proprio l’accesso delle donne al ministero ordinato. Se in occasione del quarto centenario della Riforma il dibattito su questo tema era agli albori, nel corso del ‘900 quasi tutte le chiese protestanti si sono interrogate sulla tematica dell’ordinazione femminile. Il processo per rispondere alla questione se l’accesso delle donne al ministero fosse appropriato non è sempre stato lineare: in molte chiese, ci si è resi conto fin dall’inizio che il piano dell’obiezione non riguardava la dimensione teologica o ecclesiologica, bensì, molto più banalmente, il senso comune. La questione fondamentale non era se una donna avesse le caratteristiche necessarie all’esercizio del ministero pastorale, bensì come sarebbe stata percepita una donna sul pulpito o intenta a celebrare i sacramenti. Per superare tali ostacoli legati alla comune percezione delle cose, sono stati spesso necessari dibattiti lunghi e appassionati.
Lo spazio a nostra disposizione non ci permette di ripercorrere le vicende di tutte le chiese protestanti su questo tema, ma per esemplificare un cammino italiano, prenderemo ad esempio il dibattito avvenuto all’interno della Chiesa valdese. Nata come movimento medievale, che rivendicava la libertà di predicare l’evangelo senza vincoli istituzionali, la Chiesa valdese assume il suo carattere riformato nella prima metà del ‘500, aderendo alla Riforma di matrice svizzera. In questo quadro è interessante rilevare che nessuno dei riformatori – pensiamo ai nomi più importanti: Martin Lutero, Uldrych Zwingli, Giovanni Calvino – oppone degli argomenti di principio all’accesso femminile al ministero ordinato; semplicemente, si potrebbe dire, la questione non si pone, perché nessuno si sarebbe immaginato che una donna potesse ricoprire un ruolo di questo tipo. Questa sostanziale “indifferenza” al problema colpisce tanto più se si considera che, nel medioevo, il movimento valdese aveva visto la presenza di uomini e donne impegnati nella condivisione della predicazione evangelica. In ogni caso, fino alla seconda metà del ‘900, la Chiesa valdese non affronta la questione. Nel 1948 una Commissione di studio viene nominata perché riferisca nel quadro dell’assise generale dei rappresentanti della chiesa, il Sinodo, per l’anno successivo. La Commissione presenta due relazioni: nella prima, sottolinea che, dal punto di vista teologico, non si rilevavano ragioni sufficienti per continuare ad escludere le donne dall’esercizio del ministero pastorale nella sua pienezza. Nella seconda – per ragioni che evidentemente esulavano dalla valutazione teologica – suggerisce una serie di possibili compiti che le donne avrebbero potuto svolgere, senza essere necessariamente inserite nel quadro del ministero ordinato. Colleghi pastori anziani, che ancora ricordano il dibattito che si sviluppò negli anni successivi, dicono che una delle questioni più spesso sollevate era che “le chiese avrebbero avuto difficoltà a concepire l’idea di un pastore donna”: appunto, la teologia non c’entrava. Per quasi quindici anni la discussione prosegue e solo nel Sinodo del 1962, viene riconosciuta alle donne la possibilità di accesso al ministero pastorale (che in seguito sarà anche ministero diaconale). Nel 1967 viene consacrata al ministero pastorale la prima donna, dopo un periodo di adeguata formazione teologica, come per tutti i pastori, del resto.
Cinquant’anni dalla consacrazione della prima donna; una decina dall’elezione della prima pastora al ruolo di moderatore della Tavola valdese, cioè presidente dell’organismo che, nell’Unione delle chiese metodiste e valdesi in Italia, coordina l’amministrazione della chiesa, si occupa di garantire una adeguata copertura pastorale alle chiese locali e svolge compiti di rappresentanza nei rapporti con lo Stato e con l’ecumene nazionale e internazionale. Attualmente all’incirca un quarto del corpo pastorale valdese e metodista italiano è costituito da donne. Le chiese hanno avuto difficoltà a capire? Sembrerebbe di no: l’efficacia di un ministero non dipende da questioni di genere ma dalla consapevolezza vocazionale che, in tale ministero, si esprime. Certo, non tutto è stato auto-evidente fin dall’inizio, c’è stato bisogno di tempo perché tutti condividessero questa visione e, sicuramente, il tempo ha aiutato la riflessione mostrando che ad essere in gioco non era l’esigenza femminile di occupare degli spazi, bensì un nuovo modo di esprimere oggi la fedeltà all’evangelo di Gesù Cristo.
Condivisione ecumenica significa anche scambio di esperienze. Le chiese della Riforma dovrebbero mettere a disposizione delle altre chiese tale esperienza, così contribuendo, forse, ad un cambiamento di mentalità (espressione cara alle pagine del NT: metanoia). In effetti, la testimonianza che è richiesta ai cristiani tutti in questo nuovo millennio non può partire da prospettive che siano, in qualche modo, discriminatorie. Riconoscere che il ministero non può essere vincolato al genere sarebbe un primo importante passo in tale direzione.
William Jourdan