Dalla contemplazione alla conversione
Anche l’arte può diventare preghiera, meditazione, elevazione. Lo può diventare per chi crea l’opera d’arte, lo è per chi contempla l’opera d’arte. Può diventare anche via per mettere in discussione la propria vita, per sublimarla con la luce dell’ispirazione, della forma, del colore, per “entrare dentro” l’opera vivendone il dramma o la catarsi. Se davanti a un’opera di Caravaggio, davanti alle sue tante ombre e al raggio di luce che irrompe, viviamo, quasi identificandoci, il tormento della sua vita senza pace che solo nell’arte trova la sua luce e la sua redenzione, nelle ultime opere del francese Henry Matisse viviamo l’approdo alla serenità della fede, dopo un’esistenza mondana, disordinata e inquieta. Come egli stesso scrive: “L’artista o il poeta possiedono una luce interna che trasforma gli oggetti per farne un mondo nuovo, sensibile, un mondo vivo che è in sé segno infallibile della divinità”. L’imminente visita di papa Francesco alla Biennale di Venezia 2024 – la prima di un pontefice – in particolare al padiglione vaticano allestito presso il carcere femminile della Giudecca con il titolo “Con i miei occhi”, è il più alto riconoscimento della forza redentrice dell’arte, della sua capacità di essere di tutti e per tutti momento di incontro e di apertura anche dentro alle sbarre: perché tutti condividiamo la stessa sete d’amore, lo stesso desiderio di comprensione e perdono.
Già più di cinquecento anni fa un artista come il Beato Angelico ha saputo cogliere il forte legame che unisce l’opera d’arte e la preghiera. Uno dei luoghi dove silenzio, meditazione e bellezza si uniscono in un miracolo di suggestione che penetra profondamente nell’anima è il convento di San Marco a Firenze, dove il giovane Giovanni da Fiesole entra diventando monaco domenicano, scandendo il suo tempo fra preghiera, studio e pittura. E la grazia luminosa delle sue opere gli guadagna subito il soprannome di Frate Angelico, con cui verrà universalmente conosciuto. Nel 1439 il priore gli affida il compito di affrescare le quarantatré celle del convento, piccoli ambienti affacciati su tre lunghi corridoi, ciascuno con una finestrella da cui entra la luce, un letto, un inginocchiatoio, una nicchia per riporre i libri. Una parete rimane libera, e lì verrà raffigurata una scena della vita di Cristo, vero e proprio “libro figurato” che accompagna il monaco nella sua permanenza all’interno. Non sarà egli però mai da solo: ai piedi di ogni affresco due oranti, spesso un monaco e una monaca legati non solo all’ordine domenicano, ma anche ad altre famiglie monastiche, saranno i suoi silenziosi e presenti compagni: è il coinvolgimento alla preghiera comune, di uomini e donne, capace di superare le divisioni all’interno della Chiesa, con la speranza e l’invito ad unire finalmente la Chiesa d’occidente con quella d’oriente. Gli affreschi presentano un linguaggio espressivo depurato da qualsiasi particolare superfluo: la raffigurazione dell’evento sacro è espressa in termini di sinteticità assoluta, coerente con la funzione didattica, devozionale e teologica affidata a ciascun affresco. Una teologia che si fa immagine, spoglia eppure splendente di luce che sembra venire dal di dentro: la Parola, il Verbum che si fa forma, colore, bellezza. La bellezza dell’Incarnazione.
Affacciamoci in punta di piedi alla soglia della cella numero sette: su un piano rialzato costruito secondo le leggi della prospettiva si alza il trono di Cristo dal sedile rosso sangue. È un Cristo deriso eppure composto, bendato da una fascia trasparente sotto la quale si intravedono gli occhi chiusi per la sofferenza e l’umiliazione; è vestito di un bianco splendente, che già è un preludio di resurrezione. Alla derisione alludono la corona di spine, la canna che ha nelle mani al posto dello scettro, un sasso al posto del globo. Intorno alla testa mani ignote lo percuotono e lo schiaffeggiano, una testa finge di riverirlo togliendosi il cappello, un volto gli sputa addosso. L’essenzialità, la sobrietà, il simbolismo sono più efficaci di ogni altra rappresentazione iper-realistica. La Santa e il Santo ai lati del palco formano un ideale triangolo su cui si sofferma il monaco nella sua cella. Meditazione sul tradimento, sull’umiliazione, sul dolore interiore e mai urlato, sulla malvagità umana su cui può pure spiovere la luce della conversione e del perdono.
Dipinta nell’imminenza del giubileo del 1450, la serena meditazione figurata dell’Angelico ci traghetta ai nostri giorni, vigilia di un anno giubilare che si colloca dopo quello del Duemila: “Novo millennio adveniente”, lo aveva chiamato papa Giovanni Paolo II. Ed era la speranza che ci aveva coinvolti tutti. Quella stessa speranza che si era accesa pochi anni prima, in quella notte del 9 novembre del 1989, quando migliaia di persone, da un lato e dall’altro, hanno ridotto in frantumi il muro di Berlino, schiudendo nuovi orizzonti di pace al mondo intero. Ma subito nuove nuvole oscurano il cielo: le sanguinose guerre nella ex-Jugoslavia, culminata, nel 1995, con la strage di Srebrenica, dove sono i cristiani a sterminare migliaia di inermi musulmani e dove ogni giorno ancora le donne si raccolgono a pregare, la prima guerra del Golfo che accende nuovi fuochi in un Medio-Oriente già tanto inquieto. Ma in quei giorni che precedevano l’alba del Duemila l’attesa era per tutti di un’epoca di pace. Mi trovavo a Gerusalemme in quel Capodanno speciale: si respirava un’aria che non avevo respirato altre volte, l’aria di una pace che sembrava imminente, che, dopo più di cinquant’anni di guerre, con il Trattato di Oslo, con la nascita e il reciproco riconoscimento dei due stati, avrebbe finalmente visto rifiorire la Terra “dove scorre latte e miele”: i controlli si erano allentati, nuovi insediamenti turistici accoglievano turisti non solo religiosi, una funivia da poco inaugurata collegava Gerico (territorio palestinese) all’incantevole, emozionante Monastero delle tentazioni di Cristo a picco sul deserto del Mar Morto, sulle spiagge di Tel Aviv esplodeva la movida giovanile.
Anche la Chiesa in quel giubileo del Duemila voleva rileggere criticamente la propria storia: tutti ricordiamo i mea culpa per le tante colpe, per i tanti dolori, per le tante divisioni, per i tanti silenzi che avevano segnato i secoli della sua presenza terrena. Ma tutto è durato lo spazio di un alito di vento: l’11 settembre 2001 l’intero mondo precipita in un buio totale. Le immagini in diretta di sconvolgente violenza, che credevamo possibili solo nel cinema, segnano un nuovo spartiacque nella storia. “La rabbia e l’orgoglio” è il titolo di un appassionato articolo che Oriana Fallaci, testimone a New York, pubblica sul Corriere della Sera. Ed è un titolo profetico: saranno la rabbia, il rancore, la vendetta, il terrore ad accendere guerre, a creare ovunque paura, diffidenza, attentati che colpiscono nel mondo centinaia di vittime innocenti. Davanti al Cristo deriso della piccola cella del Beato Angelico, alla teologia della luce, della ragione che illumina l’anima, anche noi, nella preghiera, nel silenzio ci inchiniamo davanti al male della colpa e al mistero della conversione.
Chiara Magaraggia