Occorre costruire insieme un nuovo mondo e relazioni nuove, tra lungimiranti visioni e realtà
L’incertezza. Le mie riflessioni non hanno la pretesa di chiarificare la situazione che stiamo vivendo. Si tratta di un punto di vista, dunque una visione certamente limitata, cioè la mia. È sempre molto difficile leggere il presente, lo è sempre stato, per questo i profeti e le profetesse sono molto rari nella storia dei popoli.
Oggi il presente è assai opaco; si sa molto poco di quello che stiamo vivendo, per lo meno noi donne e uomini comuni, ne abbiamo solo notizia. Anzi, siamo bombardati da notizie, da numeri e statistiche ma non sappiamo che cosa vogliano dirci veramente. Eppure, questa sensazione d’incertezza è importante e forse ci serve per imparare a guardare più intensamente, lasciando da parte tutte quelle letture molto superficiali.
Lo squarcio. Nella tradizione sapienziale delle prime comunità cristiane, la Pasqua si annuncia già prima della resurrezione. In Matteo 27,51 si descrive il velo del tempio che si squarcia. Ciò che è importante è proprio lo squarcio, così come per il popolo ebraico si “squarciò” il mare nella notte in cui Dio vegliò per liberare il popolo dalla schiavitù (cfr. Es 14,21).
È da questo squarcio che dobbiamo guardare, anche se fosse solo una fessura o una dolorosa ferita, e questa è la mia proposta: guardare seppur da un piccolo squarcio.
Un metodo. L’altro aspetto che mi sembra importante è trovare una metodologia di lettura. Ciascuna di noi, ciascuno, dovrebbe cercare quelle idee e quei vissuti che in qualche modo ci dissetano o ci danno cibo, e ripensarli. Il presente, infatti, non lo si può leggere partendo dal nulla, ma ha bisogno di qualcosa che noi ci portiamo dentro; un sentire profondo che ci aiuti a interpretare. Chi non ama il presente, o chi dal presente non si aspetta nulla è molto difficile che lo possa leggere. Chi è troppo concentrato su di sé o sulle poche persone che lo circondano, certamente farà più fatica a leggere il tempo presente.
Sospingerci fuori. Il primo passo richiesto è l’uscita da sé, questo andare in avanti, andare prima, alle luci dell’alba, come raccontano i primi cristiani quando parlano delle donne dopo la resurrezione. Nelle Scritture ebraico-cristiane, che sono una delle mie fonti, si usa un verbo molto bello: “correre”. A questo verbo poi se ne aggiungono altri che lo abbelliscono ancora di più: alzati, vieni, esci… ecc. Sono tutti verbi di sollecitudine.
La sollecitudine per il presente. La sollecitudine per il presente non è un dovere ma nasce dal renderci conto che tutti noi facciamo parte di questo tempo. E, oggi più che mai, di un tempo che è stato ed è gestito da altri senza che noi potessimo reinventarlo. Questa è una prima caratteristica di questo sistema che avvolge tutte e tutti. Siamo stati privati dell’invenzione e dell’immaginazione. Il sistema iniziato con l’avvento del capitalismo e la sottile filosofia che l’ha sostenuto, fino a diventare capitalismo selvaggio, unito all’esasperazione dell’individualismo e dell’autosufficienza portate come modello, ha costruito un sistema che deve produrre persone a sua immagine e somiglianza, quindi persone meno pensanti (e così si capiscono i tagli all’istruzione e alla cultura in tutti i paesi). Ma soprattutto è come se avessimo perso il senso profondo della vita, delle cose da fare, la cura, il sogno per imparare a essere se stessi e veri.
È molto strano ma noi ci siamo ammalati ancor prima della venuta del virus. E la cosa più strana è che questo isolamento, questo individualismo esasperato ci è stato dato come cura e funziona oggi come uno degli anticorpi più efficaci. Allora è vero che il virus ha fatto emergere più chiaramente qual è la nostra malattia, un certo tipo di relazioni: da un lato l’isolamento ma dall’altro la spasmodica voglia di sapere tutto, di conoscere la vita privata degli altri. E tutto virtualmente, perché la velocità del virtuale calma velocemente i nostri assurdi bisogni.
Gli anticorpi della solitudine e dell’isolamento. Il virus lo stiamo vincendo con gli anticorpi che avevamo già dentro: infinite solitudini, individualismi, separazioni, fughe in altri lidi per sopravvivere, ma sempre fuori dal reale, lasciando tutto in mano agli scienziati, ai politici e agli economisti. Gli unici anticorpi che avevamo sono questi: la separazione gli uni dagli altri, la distanza, ma non si può vivere per sempre in una situazione del genere. E qui viene il punto.
Ma non tutti hanno gli anticorpi adatti, non tutti nel nostro mondo ipermoderno hanno la possibilità di vivere bene in questo status di autosufficienza e individualismo. Anzi. Le situazioni di vulnerabilità aumentano. L’assenza dello stato e la frenetica privatizzazione negli ambiti più importanti della vita di una comunità umana – come, per esempio, l’istruzione e la salute – hanno portato a frammentare le nostre società; hanno aumentato i privilegi e dunque i pochi privilegiati ed escluso sempre più persone.
In questi giorni molte persone non solo sono particolarmente non addolorate, ma addirittura scandalizzate dal fatto che un virus ci stia minacciando e che minacci noi del mondo super sviluppato e non solo altri, come quasi sempre capitava. Ogni appartenenza ristretta è molto pericolosa, è mortifera, uccide. E questo veleno, o virus in latino, l’avevamo già dentro. In qualche modo era già stato programmato da tanto tempo.
Cambiare? A questo punto a tutti verrebbe da dire: dobbiamo cambiare! Sì, certamente, ma cambiare per che cosa? Per tornare di nuovo ad essere meglio degli altri, o più perfetti degli altri; magari più capaci degli altri per dare esempio, per gestire tutto. È secoli che lo facciamo; è secoli che insegniamo ad altri pensando di essere migliori, sia con le nostre teorie sia con la religione. Ma non possiamo più pensare un universo diviso tra perfetti e imperfetti.
C’è un punto da cui dobbiamo ricominciare. E non è il punto zero dell’uguaglianza ma della differenza. Siamo tutti differenti gli uni dalle altre: le culture, i saperi, le geografie. Ciò che ci distrugge è il modello che tutti devono applicare alla propria vita, la moda. Con la scusa di controllare i nostri poveri movimenti economici, ci obbligano tutti al bancomat. Con la scusa della salvezza, ci conducono tutti a una stessa dottrina. Non siamo tutti uguali ed è necessario prenderci cura della differenza, tenerla in considerazione, coltivarla, riscattarla.
Estasi e visione. Come? Forse non lo so, non lo posso sapere perché di questo sono certa: non lo può sapere una persona sola, possiamo solo immaginarlo, pensarlo e condividerlo insieme. Tutto ciò ci realizza nella paziente e insistente trasformazione, uscendo da ogni “banalità del bene” – parafrasando Hannah Arendt –, magari accontentandoci di ripetere il flusso dell’eterno ritorno. C’è bisogno di estasi e visione; due termini che chiedo prestati alla lingua mistica.
Il primo, estasi, etimologicamente indica “star fuori di sé”, mentre il secondo – visione – è la possibilità di vedere la realtà nella sua significazione più intima. Non siamo i primi ad abitare questo spazio, altri l’avevano conservato per noi, se ne erano presi cura per cui in questi spazi ci stiamo anche nella memoria viva di coloro che ci hanno preceduto, quello che nelle popolazioni indigene dei paesi andini si chiamano “los antepasados”. In questo spazio vige allora un grande mistero che ha le sue leggi, i suoi ritmi, le sue peculiarità che molte volte nonostante il potere assoluto della scienza o di chi gestisce la scienza, ci sfugge.
Non c’è nessuno, dunque, che ha una soluzione che nasce dal nulla, ma ciascuna, ciascuno, abbiamo la possibilità di abitare i luoghi imparando sapienza, ricevendo bontà, da tutti e da tutto. In questo modo, tra lungimiranti visioni e realtà, impariamo a vivere.
Antonietta Potente
Teologa domenicana