Il popolo è un noi che condivide, e che permette a ogni vita di dare il meglio di sé
Per vivere come sorelle in un popolo che invoca coraggio e speranza, occorre fermarsi su che cosa dobbiamo intendere per popolo. Forse è facile dare per scontato di saperlo, anche senza metterne a fuoco l’identità. Se seguiamo Fratelli tutti (l’ultima enciclica di papa Francesco), ma la categoria è altrettanto decisiva in Evangelii gaudium anche se lì è rivolta specificamente alla chiesa, scopriamo che il popolo è quel noi che condivide un’identità comune, fatta di legami sociali e culturali (cf FT 158). Chi appartiene ad un popolo condivide una storia, delle radici, ma anche aspirazioni e progetti. In poche parole il popolo va inteso come lo spazio vitale in cui ciascuno e ciascuna viene promosso e fatto vivere.
Ci sono però delle realtà che sono popolo solo in apparenza. Infatti “i gruppi populisti chiusi deformano la parola popolo, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso” (FT 160). Per comprendere meglio la differenza fra un popolo e la deformazione di questo operata dai populismi richiamiamo allora l’immagine biblica della torre di Babele. Dal racconto biblico emerge chiaramente che gli esseri umani scelgono, ripetendo parole sempre uguali e quindi senza un vero dialogo, di costruire una torre di mattoni da tenere insieme con il bitume. Non scelgono di costruire con le pietre vive, intagliate una per una e armoniosamente composte con la malta, ma di cuocere mattoni tutti uguali e cementarli con il bitume. Cuocere mattoni richiama la schiavitù d’Egitto e la muraglia che ne risulta è l’immagine del popolo trasformato in una massa informe, che per paura si fa schiava del potere di turno. Non c’è modo di dare spazio alla vita di ciascuno né c’è modo di muoversi, così cementati. La paura blocca tutto e stringe in una massa compatta pronta a vedere nemici ovunque. Un popolo, al contrario, può venire meglio descritto dall’immagine usata dalla prima lettera di Pietro, che ci parla di pietre vive strette intorno alla pietra angolare, per costruire, ognuna unica e ognuna vitale, un edificio spirituale, mosso dallo Spirito, continuamente in movimento e capace di essere uno spazio di vita e relazioni. Le case abitate infatti sono sempre in movimento. Si riempiono di persone e attività, di parole e silenzi. Vengono messe in disordine e riordinate. Si rovinano e vengono sistemate. Col passare del tempo si trasformano con chi le abita, le lascia o le ritrova. Le case vivono, sempre aperte, sempre dinamiche. Così vale per un vero popolo, edificato proprio dalla vita di chi lo costituisce.
Questo spazio vitale, però, deve essere tale per tutti e tutte, altrimenti siamo di fronte ad una nuova deformazione. Se è davvero così, quindi, anche le donne in esso si vedranno riconosciuto il diritto a vivere dando il meglio di sé. Anzi solo in un popolo, cioè in un noi che abbia le caratteristiche che abbiamo descritto, le donne possono essere veramente sorelle, cioè alla pari, di fianco e di fronte a tutti gli altri. Il Vangelo di Luca ci racconta un episodio che può farci toccare con mano questa dinamica. Un giorno Gesù entra in una sinagoga e vede una donna curva, piegata su se stessa da molti anni. La schiena curvata dice l’assenza di dignità, lo sguardo rivolto verso il basso ci parla dell’umiliazione ma anche dell’isolamento, perché nessuno si fida di chi non può guardarti negli occhi. Gesù la guarisce: le raddrizza la schiena. In mezzo al popolo radunato in sinagoga, di sabato, il giorno ideale per rendere gloria alla bellezza della creazione, Gesù la restituisce alla vita e alle relazioni. Questo disturba chi gestisce il potere ma che non si lamenta direttamente con lui: ci sono sei giorni per farvi guarire, venite in quelli. Gesù reagisce duramente: ipocriti! Chiunque di voi se un asino o un bue gli cade in una buca di sabato lo salva; non bisognava restituire la vita a questa figlia di Abramo? Sembra di sentire l’eco della domanda posta da Dio a Caino: dov’è tuo fratello? Non è questa una tua sorella che camminava piegata su se stessa? Non onora il sabato darle vita?
Nelle deformazioni populiste o gerarchiche dei popoli la vita di quelli che il sistema non riconosce non conta, contano solo coloro che possono sostenere il sistema stesso perché si conservi. Gli spazi vengono chiusi, la dignità tolta, le possibilità di vita soffocate. In un popolo, invece, ognuno può trovare uno spazio di vita per sé, per vivere al meglio delle proprie possibilità e proprio per questo moltiplicare la propria vita contribuendo al bene di tutti.
La vita di ciascuno, resa possibile dall’intreccio vitale delle relazioni nel popolo, e la vita del popolo intero, infatti, sono reciprocamente implicate. Non si possono scartare alcuni per far prosperare altri, né pensare solo a sé pensando di poter vivere, ma nemmeno dimenticare la vita di ciascuno per un ipotetico collettivo impersonale. Il popolo dovrebbe essere pensato proprio come quel noi che vive solo favorendo tutte le vite che lo costituiscono.
Stringendoci in un noi vitale infatti possiamo davvero vivere e nel condividere ciò che abbiamo ciascuno è messo nella condizione di dare il meglio di sé. Nei racconti delle moltiplicazioni dei pani e dei pesci operate da Gesù, si ha proprio una dinamica di questo tipo. Sembra infatti che il cibo necessario per sfamare tutti non sorga da un prodigio spettacolare, ma piuttosto dalla capacità di Gesù di disporre i cuori alla condivisione. Seduto sull’erba verde, ciascuno offre ciò che ha con sé e il poco (per alcuni forse niente) si unisce al molto di altri finendo per sfamare tutti una volta condiviso. Quel poco che ci fa paura perdere, se viene messo a servizio di tutti, finisce per essere sovrabbondante. E così il paradosso di tutta la realtà si fa logica concreta e semplicissima: per vivere occorre far vivere, darsi una forma, uno spazio sociale, un ambiente, in cui a tutti, tutte e tutto venga dato modo di vivere. Uno spazio in cui crescere e moltiplicare la vita, come il primo comando di Dio ci esorta a fare.
Simona Segoloni