Da quando papa Francesco ha cominciato a parlare espressamente di sinodalità (si pensi in modo particolare al discorso pronunciato il 17 ottobre 2015 in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, ma anche ai passaggi di Evangelii gaudium che questo stesso discorso richiama, come anche al documento sul sinodo dei vescovi Episcopalis communio e al testo della Commissione teologica internazionale sulla sinodalità, senza nemmeno considerare la rinnovata prassi sinodale e lo stile con cui è stata condotta dall’attuale pontefice) la parola è diventata di moda, senza che questo abbia prodotto però, almeno così sembra, reali cambiamenti. Ad essere speranzosi, forse, abbiamo cominciato ad attivare dei processi che magari un giorno porteranno qualche frutto. Per ora di sinodalità si parla, per lo più.
Il punto è, però, che non si esagera nell’affermare che la credibilità della Chiesa di oggi – e quindi la sua stessa sopravvivenza in futuro – dipenda in buona parte dalla conversione sinodale di cui ora riusciamo solo a parlare. È innegabile infatti che la Chiesa così come è organizzata oggi è incapace di coinvolgere in modo attivo le persone che ne fanno parte, nemmeno quelle più formate e motivate. Siamo ancorati ad una struttura, dispotica nei metodi e ideologica nelle giustificazioni delle prassi, che impedisce a tutti i credenti che non siano ministri ordinati – e quindi a tutte le credenti – di avere una parola autorevole, di partecipare alle decisioni e al discernimento, di prendersi una reale responsabilità. Non si decide insieme, decide chi è in cima alla piramide – piccola o grande che sia non importa –, e nemmeno si discerne insieme, perché al massimo si chiede un parere ad un organo consultivo, ma non si pensa che il discernimento (e quindi le decisioni) debbano essere il frutto di un processo di confronto e di condivisione: si chiede un parere di cui si può tenere conto o meno in quello che uno solo ritiene di sua esclusiva responsabilità.
La sinodalità invece, che la Chiesa conosce fin dalle sue origini e che non ha mai sospeso (pur esprimendola in vario modo, a volte fino a ridurla ad impotenza), consiste proprio nella ferma convinzione che per discernere la realtà secondo Dio e per prendere decisioni conseguenti sia necessario che i credenti (e le credenti) si radunino, si ascoltino e discutano, spinti dall’amore reciproco e dalla ferma volontà di obbedire al Vangelo, quindi convengano su qualcosa da credere o da fare. La qualità ecclesiale e spirituale di ciò su cui si conviene è data proprio dal processo tramite il quale lo si raggiunge, perché se chi partecipa al discernimento si lascia dominare dallo Spirito (cioè ama l’altro e ascolta la Parola), l’intreccio delle relazioni e delle discussioni condurrà a ciò che sorge dalla concordia dei cuori, che sempre è frutto dello Spirito. In questo modo sarà proprio il convenire a testimoniare l’opera dello Spirito e quindi a dare qualità a quanto deciso.
Questo tipo di processo ha bisogno però di alcuni irrinunciabili elementi: parresia (la possibilità di parlare francamente, di esprimere ciò che si ritiene vero e di cui si fa esperienza), fraternità/sororità (una relazione orizzontale in cui tutti quelli che si confrontano si sentono alla pari con gli altri, degni di ascolto e disposti ad ascoltare) e libertà (la possibilità di scegliere qualsiasi cosa emerga dal confronto senza dover difendere interessi di parte o ruoli precostituiti). Appare evidente che tali elementi non sono conciliabili con una struttura gerarchica, in cui le cariche e i poteri decidono l’importanza ecclesiale di una persona: senza una reale fraternità, che vede tutti come membra dell’unico corpo in cui ciascuno e ciascuna gioca un ruolo indispensabile per tutti, nessun processo sinodale si può dare. Certo i ministeri e le responsabilità saranno diversi, come anche i carismi, ma deve essere chiaro che la vita della Chiesa è frutto del contributo di tutti e che, quindi, il processo di discernimento e di decisione – come anche l’insegnamento e la predicazione – deve in qualche modo attingere al vissuto e alla fede di tutti, perché questo è il luogo in cui lo Spirito opera e parla. Fino a che la decisione sarà di uno solo esprimerà solo ciò che lui (qui il maschile è voluto perché è sempre un uomo che ha di questi poteri) vuole e pensa e questo, per quanto buono e intelligente, non sarà mai ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. Per dare voce a ciò che il soffio dello Spirito grida, occorre un processo sinodale: radunarsi, ascoltarsi, convenire.
La prassi e la struttura ecclesiale sono lontanissime da quanto descritto. Rimane un abisso fra due “generi” di cristiani, uno attivo e uno passivo nella Chiesa, una divisione, che non avrebbe mai dovuto esistere, che il Vaticano II ha rinnegato e che potrebbe finalmente venire meno in una reale prassi sinodale. Se cominciassimo, prima della riforma del diritto canonico che arriverà per ultima, a convertirci scegliendo di non prendere più alcuna decisione, né di insegnare più nulla, se non al termine di un processo di reale ascolto, pronti ad abbandonare ciò che avremmo fatto in autonomia per onorare quanto emerso dal confronto sinodale, se cominciassimo a fare questo, ogni muro di separazione che si staglia ad oggi nella Chiesa, ponendo i credenti di qua o di là di una barricata, comincerebbe a sgretolarsi e magari cominceremmo a cementarci insieme gli uni con le altre per costruire un unico edificio spirituale o per essere quel corpo solo che è capace di rendere presente il Risorto.
Non è una questione di procedure, ma di identità ecclesiale. Da quello che facciamo si vede quello che siamo e da quello che decideremo di essere dipenderà la qualità della nostra testimonianza.
Simona Segoloni Ruta