Nell’amore (non) c’è paura?

14
Lug

Pratiche e pensiero delle donne, al Festival biblico con Elizabeth Green

Chiaro e coinvolgente l’intervento a Vicenza di Elizabeth Green, teologa e pastora evangelica, all’interno del ventesimo Festival biblico. L’accattivante titolo, scelto con don Dario Vivian (purtroppo assente all’incontro), Nell’amore (non) c’è paura? Pratiche e pensiero delle donne, ha saputo attirare molte persone per approfondire l’agape, tema del Festival, dalla prospettiva della teologia femminista.

Elizabeth innanzitutto ha fatto emergere che: “guardando al movimento delle donne e alla persistenza di un patriarcato che vede esiti di violenza contro le donne atrocemente attuali, occorre fare una lettura critica del tema dell’agape. Questione molto delicata, in quanto tocca l’elemento centrale del cristianesimo sia a livello teologico: «Dio ha così amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio» (Gv 3,16); sia a livello etico: «Vi do un nuovo comandamento: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34). Pertanto, confondere la violenza con l’amore è stato (ed è) possibile nel momento in cui l’amore viene inteso come oblazione, sacrificio di sé. E questo tipo d’amore viene fatto diventare modello di vita, soprattutto per le donne. Infatti, se noi dobbiamo amare come Egli ha amato noi – cioè senza porre resistenza a chi lo voleva uccidere –, allora ne consegue che la donna davanti alla violenza maschile non ha altra scelta se non quella di interpretarla come segno d’amore, e sopportarla fino alla morte. Magari non in croce, ma precipitando da un balcone, bruciata dentro una macchina, accoltellata sulla soglia di casa… L’idea dell’amore come sacrificio di sé è radicatissima nella nostra cultura, ne è segno il fatto che gran parte dei femminicidi avvengono all’interno di relazioni d’amore intime. Allora, possiamo immaginare quanto sia pericoloso per la donna ascoltare il consiglio di preti, pastori o familiari di sopportare botte e soprusi, di portare la propria croce, perché l’amore “vince ogni cosa” e la famiglia va salvata ad ogni costo. Per questo, agli albori della seconda ondata del movimento delle donne, nasce la critica femminista all’agape. Partendo dalla distinzione di genere, questa critica diceva che l’agape è un antidoto eccellente al peccato inteso come hybris, ossia l‘eccesso di sé, il controllo o dominio dell’altro, difetto – nella società patriarcale – più degli uomini che delle donne. Le donne tendevano a soffrire del peccato opposto, di una mancanza di sé: già praticavano l’agape, a volte fino allo sfinimento, sacrificando i propri interessi, il proprio tempo, le proprie aspirazioni cioè la propria vita. In questo quadro, porre l’enfasi sull’agape non faceva altro che tenere le donne sottomesse a un ordine sociale patriarcale. Quindi, come donne abbiamo bisogno di sentire un altro messaggio: che abbiamo un valore intrinseco e che siamo preziose agli occhi di Dio”.

Una seconda riflessione ha fatto riferimento all’ultima pubblicazione di Elizabeth, Dio, il vuoto e il genere, in cui si parla dell’esperienza paradossale di Gesù: lo svuotamento chiamato kenosi. Interviene Elizabeth: “ancora una volta, questo svuotamento è stato chiesto in particolare alle donne, inchiodandole a schemi di autoimmolazione. Se modello dell’agape, per il cristianesimo, è Gesù, che ha saputo vivere la kenosi, occorre però far notare due cose. La prima, che il Cristo poteva svuotarsi perché partiva da un pieno: «l’essere come Dio». Il suo diventare servo aveva un senso, perché partiva da una posizione privilegiata. Quando questa stessa azione viene ingiunta alle donne o ad altre persone che occupano una posizione subalterna nella società, essa non fa altro che confermarle in tale posizione perché sono già state svuotate! Sono già serve! Di che cosa potrebbero mai svuotarsi? La seconda, che forse è un po’ più complicata, è che Cristo è stato vittima dello stesso potere patriarcale che esclude, opprime e sfrutta le donne. In altre parole, diventando servo e morendo sulla croce, lui si fa carico delle sofferenze di tutte e tutti coloro che sono scartati dal potere patriarcale. Occupa, per così dire, il loro posto, in modo che loro e noi non lo occupiamo più! Pertanto, possiamo dire che la resurrezione di Cristo significa l’empowerment delle donne”.

Un ultimo aspetto che riportiamo, tra i molti altri messi in luce da Elizabeth, riguarda le prassi e le riflessioni femministe che aiutano a farsi carico dell’intera comunità del creato con logiche altre. Prosegue la teologa: “direi che le analisi femministe hanno dato un grosso contributo nel dimostrare come la natura sistemica del dominio e le sue diverse forme siano interconnesse. Pertanto, bisogna cercare di tenere insieme la specificità del genere da un lato, e la gerarchizzazione di altri rapporti sociali dall’altro, per evitare che la stessa dinamica di dominio tra uomini e donne si rifletta anche nei rapporti tra popoli, tra etnie, tra classi e categorie sociali, e tra gli umani e la terra. Per il femminismo intersezionale, la discriminazione delle donne si interseca con altre forme di discriminazione. E la violenza di genere si interseca con altre forme di violenza. Ciò significa che le riflessioni delle teologhe su temi come l’agape e la kenosi permettono di considerare la relazione tra gli umani e la terra in termini di reciprocità. Faccio un esempio semplice, se io prendo tutto lo spazio, estendendo i centri abitati attraverso la cementificazione, privo le altre creature, piante e animali, del loro spazio vitale. Ma, e qui c’entra la reciprocità, privando loro dello spazio faccio un danno anche a me stessa, perché la loro esistenza è vitale per la mia. Se io, invece, come creatura privilegiata mi pongo dei limiti, il mio essere accresce grazie allo spazio che ho aperto alle altre entità. McFague, teologa che da una vita lavora su questi temi, afferma: «per essere me stessa, ho bisogno di te», ma non limita quel «te» solo agli umani estendendolo a tutte le creature della comunità della creazione”.

Elisa Panato