Il lungo volo della speranza nella storia delle donne
Alata, sottile, con una leggerissima veste verde che asseconda i movimenti del corpo, un ramo fiorito nella mano sinistra, lo sguardo sereno che guarda in alto, forse alla meta del volo: così il pittore Andrea de’ Buonaiuti rappresenta la speranza nelle pareti della grande cappella della Basilica di S. Maria Novella a Firenze. Ha un volto femminile e la leggerezza di chi sa sollevarsi dalla pesantezza della terra, certa che il fiore darà frutti. Ma l’immagine della speranza va oltre la valenza religiosa; il suo volo ha certamente come meta il cielo, ma in un senso molto ampio: il volo diventa la possibilità di andare oltre i limiti del proprio tempo, verso un’utopia (alla lettera “il luogo che non c’è”) che, attraverso la speranza, si potrà realizzare e non solo in cielo, ma pure in terra. E… come è necessario il volo della speranza nella storia delle donne!
C’è un luogo splendido a Napoli, affacciato su uno dei panorami più belli del mondo, appena sotto la scenografica Certosa di San Martino, immerso in una macchia di pini marittimi: un monumentale complesso monastico cinto da antiche mura, con chiostri e giardini ornati di maioliche. La speranza è arrivata qui tanti secoli fa, alla fine del Cinquecento, quando Orsola Benincasa, giovane mistica napoletana, ha voluto realizzare il luogo dove ritirarsi: una religiosità profonda e autonoma, la sua, che, nell’età della Controriforma, voleva esprimersi fuori da rigide regole, attirando giovani animate da questi ideali. È successo a suor Orsola ciò che è successo a tante esperienze di spiritualità femminile: il controllo delle autorità ecclesiastiche le ha in parte tarpato le ali, ma non del tutto. Grazie all’intervento della famiglia che se n’è assunta la responsabilità, le sorelle hanno potuto rimanere religiose allo stato laicale, dedicandosi al soccorso, all’assistenza e all’educazione degli ultimi. E qui davvero l’utopia sembra diventare realtà: con l’unità d’Italia il Ritiro di Suor Orsola, proprio in virtù della sua particolare “religiosità laica”, riesce a sfuggire alla legge sull’incameramento statale dei beni degli ordini religiosi perché considerato “Opera pia a carattere laicale” e viene riconosciuta come scuola gratuita per ragazze, dalla scuola elementare ai tre anni di corso magistrale. Nel 1891 la svolta: la nomina a ispettrice di una donna tenace, intelligente, animata da una fortissima fede nell’educazione delle ragazze: Adelaide Del Balzo. Nell’atto di assumere l’incarico dichiara: “La donna a me sembra essenzialmente incitatrice e domatrice di animi, e sempre educatrice. Ma il suo spirito, il suo cervello, debbono, come una buona terra, essere assiduamente lavorati: non una zolla dell’essere suo spirituale deve essere immune da questa intensiva coltura se si vuole che essa adempia la sua funzione familiare e sociale”. Si sceglie una collaboratrice colta e altrettanto volitiva, Maria Antonietta Pagliara, pedagogista seguace del metodo Froebel, che adotta l’uniforme delle femministe inglesi. E il ritiro di suor Orsola si avvia a diventare Università Suor Orsola Benincasa, il primo ateneo libero d’Italia, aperto, senza fine di lucro, oggi ai primi posti nel mondo per il prestigio acquisito nello studio e nella ricerca.
Chissà come avrebbe gioito Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, appartenente a una delle famiglie più potenti di Venezia, che in pieno Seicento, fra tante difficoltà, diffidenze e ostilità diventa la prima donna laureata d’Italia e d’Europa! Anche sulla sua spalla si era posata la speranza. Affamata di sapere, studia le lingue greca, latina, ebraica, spagnola, francese e un po’ di arabo. Conosce la musica, la matematica, l’astronomia e la filosofia, stimolata, pare, da un erudito arabo, inviato a Venezia proprio per conoscere la ricca biblioteca di casa Cornaro. Per rispetto alla famiglia e su intervento delle istituzioni veneziane, riesce, contro ogni regolamento, a iscriversi all’Università di Padova, l’ateneo della Serenissima, dove compie approfonditi studi di teologia. Ed è proprio in teologia che Lucrezia vuole laurearsi. Pensiamo alla perplessità generale: mai una donna si era laureata in alcuna università europea; in più, neppure nei Paesi riformati, nessuna donna aveva osato aspirare al dottorato in teologia. Dovrà accettare un compromesso: la laurea “solo” in filosofia. La discussione finale sarà pubblica e solenne: nel Duomo di Padova, davanti alle più alte magistrature, Lucrezia riceverà il dottorato, col massimo della lode. Sembra aprirsi un mondo nuovo, in cui le donne possono studiare, in cui la sapienza femminile viene considerata un bene per l’umanità, non un’eccezione o un pericolo. Al Bo, nella parte più antica dell’ateneo, una statua celebra Elena Lucrezia. E oggi, in occasione degli Ottocento anni dalla fondazione dell’università patavina, finalmente la sua figura acquista per tutti il ruolo che le spetta.
È negli Stati Uniti che, molto prima rispetto all’Italia, la statura storica della prima laureata viene riconosciuta e onorata. Nel 1906 a lei viene dedicata una grande vetrata, che illumina la biblioteca del prestigioso Vassar College di New York.
Sono invece anni durissimi, quegli anni di inizio Novecento, per le centinaia di migliaia di italiani costretti a lasciare l’Italia per tentare di migliorare le loro condizioni di vita: è la grande migrazione, che, particolarmente dal porto di Genova, alimenta la speranza di trovare in America accoglienza, casa, lavoro. E forse proprio sulla torcia della Statua della libertà si posa la speranza, alimentando l’ardore e la tenacia di Francesca Cabrini, Madre Cabrini, come la chiameranno i migranti che in lei vedono un punto di riferimento concreto e tenace. “Ripigliate coraggio, mettetevi per via e correte senza fermarvi… e abbiate paura di voltarvi indietro”: è il suo motto, l’incitamento che rivolge a se stessa, alle consorelle e a donne e uomini che incontra per la sua via. La “maestrina Francesca” si era già distinta in Italia per la capacità di organizzare e animare scuole per tutti, in attuazione della legge Coppino che per la prima volta parlava di istruzione elementare obbligatoria. E anche se i rapporti fra stato italiano e chiesa sono alquanto tesi, lei all’educazione ci crede davvero, e con invidiabile e pragmatico spirito di iniziativa a questo dedica tutta se stessa, prima in Italia e poi, per lunghissimi anni proprio nell’America della grande migrazione. Una vita infaticabile a favore dei migranti, l’oceano attraversato ventiquattro volte senza paura, apprezzando i mezzi di trasporto moderni e veloci. E veloce doveva essere il suo tempo per stare più vicina a quei connazionali trattati come schiavi “tanto che bisognerebbe non sentire amor di patria per non sentirsi ferita”. Nei porti, nei ghetti, nelle miniere, nei luoghi malfamati dove nemmeno la polizia osava avventurarsi, lei, Madre Cabrini entra, organizza, si destreggia nel mondo degli affari. Lei, fiera di essere italiana, prende la cittadinanza americana ed è così più agevole istituire scuole, ambulatori, uffici, trattare affari per ottenere “finanziamenti non carità” (un altro dei suoi motti), insegnerà l’inglese “perché solo così potrete inserirvi e senza la conoscenza dell’inglese finirete in carcere”. E pretende che gli edifici siano non solo dignitosi ma belli, perché “anche la bellezza contribuisce a dare dignità”.
Assume tanti volti di donne, la speranza, capaci di mettere ali per volare in alto, in nome della dignità, della promozione, della libertà.
Chiara Magaraggia