L’unità prevale sul conflitto… anche nella Riforma?

30
Ago

Non me ne avranno le lettrici e i lettori di Vita Nuova se nel cercare di declinare il tema di questo numero della rivista, lascerò maggiormente sullo sfondo il contributo femminile al dibattito, per riflettere, più in generale, sul rapporto tra conflitto e unità così come è stato articolato nelle chiese della Riforma.

È considerazione piuttosto lapalissiana – ma talvolta conviene ripeterlo comunque – che il conflitto appartenga al cristianesimo fin dalle sue origini. Tale considerazione non intende giustificare le conflittualità, piuttosto considerarle come parte di una realtà con la quale la fede cristiana deve confrontarsi. Già nel gruppo ristretto dei discepoli di Gesù emerge uno scontro tra chi vuole essere primo o più vicino degli altri al Cristo; e nella comunità, anzi, nelle comunità cristiane delle origini, le quali sono chiesa nella loro molteplicità, si manifesta in più modi la conflittualità: sul piano locale nello scontro tra visioni differenti di chi si avvicina al movimento cristiano e, sul piano più ampio, in riferimento al mandato missionario della chiesa, nella collisione tra una visione “etnicizzante” del cristianesimo (che sarebbe proprio solo per i giudei) e una visione che si potrebbe definire “interculturale”, aperta alla prospettiva di un annuncio che si rivolga non solo ad un popolo in particolare, ma a quanti, indipendentemente dalla loro provenienza, ripongono fede in Gesù Cristo e riconoscono in lui la rivelazione di Dio. Ovviamente l’elenco dei grandi conflitti all’interno della comunità cristiana delle origini sarebbe molto più lungo e complesso da articolare; in un certo senso, si potrebbe quasi dire che la vicenda cristiana prosegua di conflitto in conflitto, riscoprendo nuove forme di unità. Unità che non si articola mai come statica uniformità di prospettive o strutture, ma come molteplicità che sa riconoscere le differenze e farle convivere. Si potrebbe addirittura dire che, per una nuova unità, forse più matura, è necessario passare attraverso il fuoco del conflitto. Certo, non si tratta di farne una teoria generale, per la quale sarebbe necessario cercare il conflitto al fine di ottenere una migliore unità; ciononostante, le conflittualità che si sono manifestate nel cristianesimo hanno permesso, spesso, di approdare ad una più profonda comprensione dell’unità.

Nel quadro del protestantesimo è noto che la molteplicità di denominazioni e strutture ecclesiastiche rischia di far pensare ad una incontrollata selva di mondi separati, che saprebbero articolare con grande abilità il conflitto ma sarebbero un po’ meno capaci di incitare all’unità. È inutile dire che chi scrive considera tale visione una caricatura. Certo, il protestantesimo nasce come fenomeno plurale e, in tale pluralità, si manifestano anche numerose occasioni di conflitto. Basti pensare all’impossibilità di trovare sul tema della Cena del Signore e della sua comprensione, una visione condivisa tra Lutero e Zwingli, nell’incontro di Marburgo del 1529. Il dissenso manifestatosi in tale occasione determinò, all’interno delle chiese nate dalla Riforma, una sostanziale impossibilità di comunicazione tra le chiese di tradizione riformata e le chiese di tradizione luterana, che si protrasse per quattro secoli abbondanti. Soltanto nella seconda metà del XX secolo, per una serie di fattori non esclusivamente teologici e che pure influirono sulla riflessione teologica, fu possibile articolare un modello, per il quale, pur nel permanere di visioni differenti, le chiese luterane e riformate potevano riconoscersi in comunione tra loro. È noto che questa modalità di concepire l’unità nel quadro di diversità riconciliate è il contributo probabilmente più importante offerto dalle chiese della Riforma all’ecumene cristiana, nel quadro del dialogo ecumenico. A fronte del conflitto determinato dalla diversità che è divisiva, non si propone una (impossibile) unità uniformante, bensì un’unità che sappia preservare le diversità, riconoscendole, ma anche privandole della loro carica divisiva. La diversità che si manifesta nell’articolazione di fede dell’altro non è percepita come un ostacolo al mio cammino di fede, bensì come una prospettiva di arricchimento, che rimane diversa dalla mia, ma non per questo più inadeguata per rapportarsi alla realtà di Cristo.

Delineato tale quadro – che non dovrebbe essere compreso come caratterizzato da questioni di genere – vorrei, all’interno di esso porre la questione: qual è il contributo specifico delle donne in questo orizzonte? In che modo questa unità nella diversità riconciliata è arricchita dal contributo femminile? Vorrei cercare di rispondere articolando due brevi pensieri. In primo luogo, il vissuto delle chiese tutte, ma, sicuramente, in maniera prioritaria delle chiese nate dalla Riforma protestante, non può essere descritto o articolato oggi prescindendo dal contributo del pensiero e dell’azione femminile. Quanti ambiti della vita della chiesa – e, di conseguenza, dell’esistenza concreta della chiesa – sarebbero deserto senza la presenza e l’apporto di energie femminili? Quanti ministeri sarebbero inesistenti senza la presenza di donne che li esercitano? Sono consapevole che la questione posta in tali termini sollevi, nella percezione di alcuni, una ulteriore conflittualità, che concerne il ruolo e il riconoscimento ministeriale femminile in diverse chiese cristiane. Senza voler proporre soluzioni a buon mercato, ricordo tuttavia che la maggior parte delle chiese della Riforma ha affrontato tale conflittualità, trovando una risposta positiva alla possibilità dell’accesso delle donne al ministero; tale risposta positiva può essere intesa come una unità che ha prevalso sul conflitto. Unità nella prospettiva della diversità riconciliata, unità nel senso di una possibilità di esercizio del ministero in modi non uniformi ma differenziati, eppure, non per questo, divisivi.

In secondo luogo, la prospettiva femminile sfida le chiese ad affrontare questioni che troppo spesso sono state taciute o di cui con ritardo si è assunta coscienza. Da più parti si sottolinea che il contributo delle donne è spesso quello di dare voce a quegli ambiti e gruppi posti ai margini dalla chiesa stessa. Correndo il rischio di suscitare conflittualità, ma accettando anche la sfida di ricostruire, dopo il conflitto, una unità, intesa come comunione, più completa.

William Jourdan

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