Le rose del vento. Una storia di esili incrociati

30
Ago

La scrittrice Widad Tamimi è figlia di un profugo palestinese fuggito dall’occupazione israeliana del 1967 e di una donna di origini ebree, la cui famiglia scappò a New York durante la Seconda guerra mondiale. È cresciuta in Italia e attualmente vive a Lubiana col marito e i due figli, prestando servizio nei campi di accoglienza ai profughi. Scrive racconti per il maggior quotidiano sloveno, e per Mondadori ha pubblicato i romanzi Il caffè delle donne (2012) e Le rose del vento (2016). Nel marzo scorso Widad Tamimi ha presentato proprio il suo ultimo romanzo al CDS Presenza Donna: un libro che racconta la storia degli esili incrociati del padre e del nonno della scrittrice, e che mostra bene come l’unità sia superiore al conflitto anche per ciò che riguarda la costruzione dell’identità: “la mia famiglia, infatti, è un misto di religioni e di lingue diverse. In casa ci sono ebrei, musulmani e cristiani. Ci sono profughi palestinesi e ci sono ebrei scampati alla Shoà. Si parlano sette diverse prime lingue e quasi tutti sono almeno bilingui. Spesso non ci si capisce, ma per lo più si cerca un punto di comunicazione che permetta la condivisione. Anche a gesti, nei casi più disperati”.

Siamo davvero felici che Widad Tamimi abbia accettato la nostra proposta di raccontarci questa “storia di vita”, che al tempo stesso è anche la storia di come è nato il romanzo che quella vita la racconta (ndr).

Le rose del vento è nato molti anni fa. Ero solo una ragazzina, passavo ore seduta ad ascoltare mio nonno, che nel buio della sua cecità rievocava le immagini di un passato nitido, perfettamente scolpito tra i ricordi. Mi raccontava di Trieste, dell’infanzia davanti al mare, dell’angoscia prima della fuga dall’Italia e della malinconia durante l’esilio negli Stati Uniti.

Sebbene le sue memorie fossero molto diverse da quelle di mio padre, c’erano punti in comune che mi obbligavano a metterle in costante relazione.

Capitava che anche mio padre si soffermasse malinconico a contemplare la terra natale. Descriveva la propria fuga come uno strappo, una cicatrice mai completamente rimarginata.

Ascoltando i racconti di mio nonno e di mio padre, e nonostante i dettagli delle loro esperienze fossero diversi, era come ripercorrere la stessa storia su un nastro incantato.

Entrambi erano stati orgogliosi e innamorati della terra di origine, entrambi erano partiti pensando che si trattasse di una breve vacanza in attesa che la situazione si calmasse, entrambi avevano condiviso un sogno: tornare a casa.

Certo, mio padre era partito senza un soldo. La sua era una famiglia senza mezzi economici, né intellettuali. La famiglia di mio nonno, al contrario, era una famiglia ricca e con molti contatti internazionali. Ma il dolore dei bambini che mio nonno e mio padre furono, così come la magia del ricordo di casa, è come uno specchio. La storia si rincorre, una punta tocca l’altra e la spinge più in là. Il cerchio non può chiudersi, continua a girare su se stesso, senza offrire una soluzione definitiva al problema dell’esilio. La fine dell’esodo di un popolo è la ragione dell’inizio dell’esodo dell’altro, come a voler condividere una coperta troppo stretta: a tirare un lembo da una parte, l’altro rimane scoperto dall’altra.

Sapevo che quelle due storie, il cui incrocio era stata la ragione della nascita di mia sorella e della mia, non sarebbero mai potute essere separate. Andavano, una volta per tutte, raccontate insieme.

Immaginavo mio padre e mio nonno bambini, uno affianco all’altro, improvvisamente coetanei. Camminavano dandomi le spalle lungo un sentiero che li portava lontano. I loro passi proseguivano fino ad incrociarsi, come i fili di una treccia.

Molti anni dopo cominciai la stesura di Esodi, questo era il titolo originario de Le rose del vento, che presi a prestito dal secondo libro della Torah, volgendolo intenzionalmente al plurale. D’altra parte è proprio nell’Antico Testamento che i due popoli semiti, quello ebraico e quello musulmano, trovano origine: è infatti dai figli di Abramo, Ismaele e Isacco, che discendono le due religioni. Popoli che, per inciso, oggi pregano sulla tomba del loro patriarca, a Hebron, divisi da una grata di sicurezza.

I protagonisti del romanzo sono due bambini: Khader e Carlo. Carlo è un bambino ebreo nato a Trieste nel 1924. La sua è una famiglia benestante, colta, di banchieri ed assicuratori che vivono tra Vienna, Trieste e la Svizzera. La grande villa in cui cresce è frequentata da musicisti e intellettuali illustri, lo zio Italo Svevo, l’amico James Joyce che dà lezioni di inglese agli uomini di casa, lo zio Edoardo Weiss, legato a Jung e Freud, e che introdusse in Italia la dottrina psicoanalitica.

Khader, invece, nasce a Hebron, in Palestina, nel 1948, l’anno della fondazione di Israele. È povero, molto povero, ma estremamente determinato. Vuole diventare un pediatra per salvare i bambini del suo popolo.

Sebbene nascano in contesti estremamente diversi, entrambi sono costretti a lasciare la propria terra. Carlo scappa dalle leggi razziali nel 1939, con la famiglia raggiunge prima Losanna, poi Londra ed infine New York. Ma non riesce a rassegnarsi, nonostante tutti sembrino aver tratto dalla faticosa esperienza dell’esilio una nuova e stimolante occasione di rilancio. Alla fine della Seconda guerra mondiale Carlo decide di tornare in Italia. Attraversa l’oceano a bordo di una nave e sbarca a Napoli, proprio mentre l’esilio di Khader, ancora nel grembo materno, comincia. Lo stato di Israele viene fondato nel 1948, i genitori di Khader sono costretti a scappare da Gerusalemme e raggiungere Hebron, dove rimarranno fino alla seconda guerra israelo-palestinese. Nel 1967 fuggono di nuovo, questa volta superano i confini della Palestina e si stabiliscono ad Amman, in Giordania.

Sono storie che si ripetono, nel ciclo infinito degli esili dell’umanità. Per questo la scelta del titolo Esodi, al plurale. Un giorno siamo costretti a scappare, il giorno dopo provochiamo la fuga di altri esseri umani, in una catena che si ripete instancabile, con lo stesso esito di sempre: dolore, lacerazione, e dispersione – esistenziale, oltre che fisica.

Immagino gli occhi di mio nonno e di mio padre, gli occhi dei bambini che furono. Occhi che piangono, occhi che ridono, che tremano e che si fidano, occhi vivi di bambini che scappano e che crescono portando i germogli di esperienze lontane in un mondo nuovo in cui seminare.

Le rose del vento è una storia di esili incrociati, quello del mio nonno materno e di mio padre. Due uomini che si incontrano, così diversi e così uguali, il giorno della mia nascita, amando entrambi la donna che li unisce, mia madre. È una storia d’amore, di luce e di ombre, come lo è la storia di questo mondo complesso. Ho ritenuto fosse importante raccontarla, non perché è la mia storia, ma perché rappresenta una soluzione d’amore al conflitto.

La mia famiglia, infatti, è un misto di religioni e di lingue diverse. In casa ci sono ebrei, musulmani e cristiani. Ci sono profughi palestinesi e ci sono ebrei scampati alla Shoà. Si parlano sette diverse prime lingue e quasi tutti sono almeno bilingui. Spesso non ci si capisce, ma per lo più si cerca un punto di comunicazione che permetta la condivisione. Anche a gesti, nei casi più disperati.

L’identità è un puzzle complesso, che spesso cerchiamo di ridurre ai minimi termini in cerca di chiarezza. Ognuno di noi rappresenta un affascinante miscuglio di identità multiple. Sarebbe bello evitare di disciplinarle, perché ogni semplificazione toglie a noi stessi e alla realtà un pezzo della sua natura, appiattendola. I punti in comune con l’altro, a ben vedere, sono più frequenti di quel che ci appare. Invece spesso ci difendiamo dietro barriere di protezione, innalzando i muri di ciò che ci differenzia dall’altro. La curiosità, e l’empatia, possono essere alternative estremamente interessanti, se accolte come la possibilità di un arricchimento personale.

Le rose del vento è dedicato a mio nonno e a mio padre, che mi hanno insegnato che l’incontro è infinitamente più potente dello scontro.

“Quei due bambini, nati in luoghi e tempi diversi, eppure uniti da una storia comune.

I bambini, come semi trasportati dal vento, partono per terre lontane, portando dentro di sé la storia delle proprie origini. Non hanno scelta, i bambini, seguono la direzione delle correnti. Sono rose, i bambini del vento, belle e ricche di spine per difendersi dalle sfide dei mondi nuovi, in cui fioriscono, contaminando e venendo contaminati, in una trama di destini incrociati”.

Widad Tamimi

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