Un affascinante viaggio tra le vetrate di Villa Giovanna, a Gallio, per ripercorrere i colori e le luci della storia orsolina
Aveva 77 anni ed era molto malato il grande Henri Matisse, quando realizzò il suo ultimo lavoro: la decorazione della Cappella del rosario, a Vence, vicino a Nizza. Era ridotto in carrozzina e non poteva più usare neppure le mani, tuttavia aveva preso un impegno con se stesso e con suor Jacques-Marie. Ed ecco che un lungo bastone si trasforma in pennello e un altro bastone, questa volta appuntito, diventa una forbice con cui tagliare i fogli azzurri, verdi, gialli con cui reinterpretava il simbolico Albero della vita. Qualche anno prima aveva subito un grave intervento chirurgico e, all’ospedale di Nizza, era stato curato con dedizione da una giovane infermiera, Monique, che, in un momento di profondo scoramento, l’aveva incoraggiato a continuare a dipingere, al punto che il pittore l’aveva invitata a posare per lui. Uscito dall’ospedale, fra l’anziano maestro e la giovane infermiera si era instaurata una fitta, profonda corrispondenza, che poi, per un paio d’anni, si era interrotta. Finché un giorno gli scrive Jacques-Marie, suora domenicana del convento di Vence, che lo esorta ad accettare l’incarico di decorare la piccola chiesa. Suor Jacques-Marie è il nuovo nome di Monique e sono tali il suo entusiasmo e l’energia positiva da contagiare Matisse, nello stesso modo in cui, come racconterà ella stessa, era stata lei ad essere contagiata dalla ricerca del colore da parte del pittore, non di un colore qualsiasi, ma di qualcosa che attraverso il colore portasse alla luce. Ciò aveva fatto nascere in lei il desiderio di mettersi alla ricerca della vera luce fino a scegliere la via del convento. Una cella del monastero diventerà così la stanza-infermeria dell’artista, un’altra lo studio dove ancora una volta intreccerà disegno, colore, immagine in un percorso di arte sacra in cui mai si era cimentato: “Questa cappella rappresenta per me la realizzazione di tutta una vita dedicata al lavoro, il frutto di un immenso, sincero, faticoso lavoro. Prendere un piccolo spazio chiuso e dargli col solo gioco delle luci e delle linee, dimensioni infinite. È come se fossi stato condotto – e l’ho constatato solamente in questi ultimi anni guardando a ritroso il mio cammino – a considerarmi come destinata dall’Altissimo a risvegliare nello spirito degli uomini la visione delle cose, che conduca ad una elevazione dello spirito fino a giungere al Creatore”. Tre anni di lavoro ed ecco, nel 1951, l’opera conclusa: il bianco dominante delle pareti, il nero che traccia le figure, come una nuova Scrittura. E poi la luce delle vetrate, il giallo, il verde, l’azzurro delle foglie stilizzate che disegnano l’Albero della vita. E chi entra, assieme al silenzio, si sente abbracciato dalla luce avvolgente, quasi un assaggio di paradiso.
Ho rivissuto un’emozione simile, nel luglio di qualche anno fa, ospite di Villa Giovanna a Gallio. Con la mamma già malata ero entrata nella cappella all’ora del vespro. L’ho rivissuta proprio attraverso le parole della mamma: “Sembra di entrare in un piccolo paradiso!”. E l’eterna magia delle vetrate si è ripetuta: sarà per questo che le grandi cattedrali del Medioevo facevano sempre spiovere sui fedeli i riflessi dei rossi, degli azzurri, dei gialli delle grandi finestre lunghe e strette, che insieme donavano luce e raccontavano storie. Poi per secoli questa luce si è spenta: lo sfarzo dei marmi e degli ornamenti preziosi ha avuto il sopravvento. Fino alla metà del Novecento, quando, quasi contemporaneamente e in contesti diversi, grandi artisti come Henri Matisse e Marc Chagall hanno voluto cimentarsi con questa sublime arte.
Le tante sfumature dell’azzurro dominano anche le vetrate rettangolari della cappella di Gallio, ideate dal maestro Leandro Pesavento e realizzate nel 1989 dalla vetreria artistica Caron di Vicenza. Un azzurro che collega idealmente le undici storie raccontate, quelle di Orsola con le amiche martiri, di Angela Merici, di Giovanna Meneghini e delle sue Orsoline. Il filo conduttore converge nelle due alte vetrate dietro l’altare, dove le tessere di vetro colorato rievocano gli episodi dell’Annunciazione e della Visitazione (immagini a sinistra). Maria è avvolta da un manto azzurro che si tinge di giallo-arancio per la luce dell’angelo che spiove su di lei, mentre i colori progressivamente si schiariscono verso l’alto e si trasformano in un caleidoscopio di gialli, di arancioni, di sfumature madreperla, con le tessere di vetro che si fanno sempre più minute, celebrando così il movimento dell’angelo e il dinamismo creatore e splendente dello Spirito divino. L’incontro di Maria e di Elisabetta è rappresentato come un incontro di colori diversi: l’accostamento dei toni chiari della Vergine (azzurri, turchini, gialli) e dei toni scuri della cugina (violetti, beige, ocra, indaco), che nelle mani intrecciate nell’abbraccio e nelle linee morbidamente curve dei due corpi, uniscono la giovinezza alla vecchiaia, il presente col passato, la buona novella con l’antica profezia. E mentre il volto di Maria è radioso nell’intonare il canto del Magnificat, il viso di Elisabetta si china intenerito verso il “fructus ventris sui”. Su di loro spiove la luce di un grande sole dorato, che alimenta e accarezza, sulla destra, una palma azzurrina, l’albero del deserto cantato nel Cantico dei Cantici: “La tua statura rassomiglia a una palma e i tuoi seni a grappoli”, ora simbolo della Vergine Maria.
È proprio il Cantico dei Cantici un altro dei fili che collega le storie delle donne raccontate nelle vetrate della parete sinistra della cappella. Protagonista è Angela Merici, riformatrice e profetica interprete di un nuovo modo di intendere la vocazione religiosa femminile che pone la dignità, il libero arbitrio, la solidarietà tra donne come gradini essenziali per attingere all’amore divino. È significativa a tale riguardo la seconda vetrata (p. 21, in basso), in cui la giovane Angela appare vestita con un sobrio abito di colore viola e grigio, i capelli raccolti con un semplice nastro, proprio come prescriverà nella sua Regola: “Non seta e nemmeno velluto e nemmeno oro e argento… Insomma non fogge né ornamenti, né trasparenze alcune”. Sta leggendo proprio il Cantico e, attraverso i versi che cantano il desiderio e la bellezza del corpo amato, scopre l’attrazione per l’amore di Dio. È un’immagine fortemente innovativa: una donna che da sola legge, medita, fa sua la Sacra Scrittura in un’epoca in cui le gerarchie ecclesiastiche ribadiscono per sé tale prerogativa. Eppure Angela non veniva da un ambiente benestante. Come racconta il suo biografo, era “contadinella di sangue”, che spesso, durante il lavoro al pascolo, amava appartarsi e pregare. Proprio lì un giorno le parve che il cielo si aprisse e che da una scala luminosa sfilasse una meravigliosa processione di fanciulle e di angeli che cantavano e suonavano. Una delle vergini le predisse che Dio voleva servirsi di lei per creare una compagnia di donne che nel tempo sarebbe diventata numerosa. È tutta azzurra la prima vetrata (p. 22, in basso), quasi che la visione di Angela portasse fin sulla terra uno squarcio di cielo. La fanciulla che le sta parlando tiene per mano un’altra compagna, ed è una tessera tonda di vetro azzurro a sottolineare quel gesto di sorellanza e di amicizia. È il gesto che segnerà la Regola di Angela, ispirato dallo stesso sentimento che, nella tragica e gentile leggenda della principessa Orsola di Bretagna, ha fatto sì che le undicimila amiche che l’accompagnavano nel pellegrinaggio a Roma, abbiano voluto condividere con lei la palma del martirio. Ancora la palma… e con tale simbolo esse sono rappresentate accanto a Orsola, nella quinta vetrata (qui sopra) in cui Angela decide di far risuonare l’antica martire anche nel nome della sua Compagnia, elaborando il suo modello ideale di consacrazione: “Tenete l’antica strada e usanza della Chiesa, ordinate e confermate da tanti santi per ispirazione dello Spirito Santo. E fate vita nuova… Siate affabili e umane con le vostre figlioline… infatti otterrete di più con l’affettuosità e con l’affabilità che con la durezza e gli aspri rimproveri”. Ed ecco che l’antica e la nuova strada si intrecciano in una continuità che attraversa epoche diverse, che si trasforma in sintonia con lo sviluppo delle idee e del faticoso cammino di promozione della donna. E arriva l’ora di Giovanna Meneghini (qui a fianco): il suo volto luminoso spicca nel contrasto con il modesto abito dai toni scuri del viola-marrone; tiene in mano la Regola di Angela Merici con la copertina dello stesso colore del suo vestito, quasi un’identificazione con “l’antica strada” della fondatrice, che, in comunanza con altre donne di epoche e condizioni sociali diverse ma di uguali sentimenti e ideali, sembra ispirarla e consigliarla.
Riconosciamo ormai le nuove Orsoline, l’abito e il velo blu delle “figlioline” di Madre Giovanna, la piccola luce che da Breganze (riconoscibile dal campanile, dalla chiesa e dal paesaggio collinare) si espande a centri concentrici, coinvolgendo uomini e donne di differenti professioni e aree geografiche, coinvolti in un comune cammino di fede, di rispetto, di solidarietà, di promozione (sopra a sinistra).
Come un tempo Angela accoglieva e abbracciava una povera vedova, porgendole il suo aiuto e il suo affetto (p. 22, in alto a sinistra), la suora orsolina del Sacro Cuore di Maria accoglie oggi ragazze in difficoltà, madri bisognose (sopra a destra), si fa, come Maria, umile ancella del Signore, presenza evangelica, concreta e dinamica nella realtà contemporanea, promotrice della cultura della diversità nelle inquietudini e nelle incertezze del presente (sopra a sinistra).
Fra i prati e i boschi dell’Altopiano, a Gallio, in quel luglio di qualche anno fa, il canto del Magnificat scandiva la serena ora del vespro: e la danza dei colori delle vetrate inondava anche noi della luce di Maria, di Elisabetta, di Angela e di Giovanna, donandoci un raggio della loro speranza.
Chiara Magaraggia
* le foto delle vetrate sono opera di Piero Baraldo