L’altra Resistenza, quella che ha salvato la bellezza
L’arcobaleno! Se c’è un simbolo che immediatamente, fin da bambini, ci fa respirare il profumo della speranza, ci dona una sensazione di sollievo e serenità, nei momenti più cupi della vita ci è di sprone a guardare avanti, ci spalanca orizzonti di pace, questo è proprio l’arcobaleno. Un semplice fenomeno fisico e meteorologico, che, osservato fin dagli albori della civiltà umana, secondo il filosofo napoletano G. B. Vico, ha fatto sì che i nostri antenati, usciti dalle foreste, si ergessero per la prima volta nella posizione eretta e poi si inginocchiassero provando per la prima volta il sentimento religioso. Un mito suggestivo, certo, ma che in modo differente è presente in tutte le civiltà antiche: per i greci era l’abito di Iride, la ninfa alata figlia di Meraviglia e di Splendore, messaggera degli dei dal cielo verso la terra. Nella civiltà ebraico-cristiana, trova nell’episodio del diluvio universale la sua memoria più incisiva. La riconciliazione fra Dio e l’umanità è sigillata dall’“arc en ciel”, come dicono i francesi, quell’arco che unisce come un grande ponte terra e cielo finalmente pacificati, la fine dell’ira e l’inizio di un nuovo mondo.
Forse poche opere d’arte hanno il forte impatto dei mosaici dell’atrio della Basilica di san Marco di Venezia, in cui, volutamente, nell’episodio del diluvio universale Dio ha il volto di Cristo, saldando idealmente il tempo vecchio e il tempo nuovo, quello del peccato e quello della redenzione. Ed è significativo che nell’immagine centrale, la più importante, siano presenti le donne: la moglie di Noè e le mogli dei figli Sem, Cam e Iafet: saranno loro a generare le nuove vite con cui l’umanità tornerà a rigenerarsi.
A questa simbologia Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto come Beato Angelico, domenicano, teologo e pittore, si ispira per le multicolori ali dei suoi angeli: pittura luminosa, tersa, la sua, che trasforma in grazia accessibile a tutti il difficile connubio fra fede e ragione. Che incanto, l’arcangelo Gabriele dell’Angelico: egli stesso diventa arcobaleno, annuncio dell’incarnazione, del divino che si fa umano, della frattura ormai risanata fra cielo e terra.
È in Raffaello che la simbologia dell’arcobaleno raggiunge il suo apice. E lo fa in uno dei suoi capolavori, nella grande pala della Madonna di Foligno, conservata alla Pinacoteca vaticana, opera che ha emozionato innumerevoli viaggiatori che hanno sostato ai suoi piedi. Il dipinto si apre come una quinta teatrale con i santi che ci suggeriscono di alzare lo sguardo: leggera, seduta sulle nuvole e circondata da una corona di angeli, azzurra come il suo mantello ecco la Vergine, seduta sulle nuvole, quasi sospesa tra cielo e terra, con il Bambino che sembra giocare con il velo della mamma. Ai suoi piedi un bellissimo paesaggio si sta rasserenando dopo un temporale: il verde gradualmente si schiarisce e all’orizzonte un sottile arcobaleno sembra allargare sulla terra l’azzurro turchino del cielo, annullandone la distanza. E in questa pace cosmica, ecco che i personaggi in primo piano diventano maestosi, recuperando la grandezza e la dignità dell’umanità redenta.
L’hanno chiamata “l’altra Resistenza”. Durante la Seconda guerra mondiale soprintendenti, direttrici e direttori di musei, storiche e storici dell’arte rischiano la loro incolumità per mettere in salvo i capolavori dell’arte che ancora rendono bello il nome dell’Italia nel mondo. Ci sono voluti quasi ottant’anni prima di dare volto e visibilità a due donne che la guerra e la Resistenza l’hanno combattuta solo con le armi del coraggio, della determinazione, del rischio personale: due autentiche testimoni e costruttrici di pace che, salvando la bellezza, hanno permesso all’arcobaleno di risplendere ancora nel cielo del nostro paese, affinché non si smarrisse uno dei tratti distintivi della nostra identità e, dopo il diluvio del conflitto mondiale, tornasse a rigenerarsi.
Un film televisivo e un’importante mostra alle Scuderie del Quirinale sui capolavori salvati… e riemergono i volti, il nome, le azioni: Fernanda e Palma sono operatrici di pace anche perché non hanno mai visto l’opera d’arte come puro oggetto da ammirare isolandosi dalla realtà, ma come sorgente viva di umanità, di fratellanza, di rispetto e amore per l’altro. Perché l’arte, accanto al valore estetico, ne ha un altro altrettanto essenziale: quello etico. Due donne differenti, in differenti contesti. Fernanda Wittgens, milanese è diventata la prima direttrice di uno dei più importanti musei italiani, la Pinacoteca di Brera, su proposta del suo maestro, Ettore Modigliani, allontanato dall’incarico a causa delle leggi razziali. Sarà lei, nel periodo dei bombardamenti e dell’occupazione nazi-fascista, a lottare con tutta la sua intelligenza e tenacia per mettere in salvo le opere, minacciate dalle devastazioni e ancor dalle razzie dei tedeschi che volevano trafugarle. Con l’aiuto di pochi, fidatissimi dipendenti (spie e informatori erano infiltrati ovunque) stacca dal muro i quadri, li carica su un furgoncino, li nasconde dai pericoli. Ma non basta: in quello stesso furgoncino, fra i capolavori accuratamente imballati, nasconde famiglie ebree e oppositori ricercati, salvati così da morte e deportazione. Su di lei si posano sguardi sospetti, tanto che verrà arrestata: solo la liberazione la salverà da un rischio ancora maggiore. Per cogliere lo spessore morale di Fernanda, basti raccontare che uno dei suoi primi gesti sarà far tornare il prof. Modigliani alla guida del museo. Lei rimarrà il suo braccio destro, continuando nell’opera di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Perché il pericolo sembra non finire mai.
È il caso dell’ultimo capolavoro di Michelangelo, la Pietà Rondanini. Un blocco di marmo, un “non finito”, dove ancora sono ben visibili i colpi di scalpello del genio quasi novantenne, dove l’intensità dell’abbraccio e della “pietas” della Madre che abbraccia e sostiene il corpo pesante del Figlio, diventa estrema fusione di corpi e di anima, quasi un ritorno del Figlio nel grembo della Madre. La scultura rischia di finire nei ricchi mercati americani: un nuovo devastante sfregio. Sarà la sua abilità e la sua costruttiva intransigenza a far rimanere Michelangelo… a casa sua.
Ha un titolo esplicito la mostra di Roma: Arte liberata. Capolavori salvati dalla guerra 1937-47. Tutta la prima sezione è dedicata ai protagonisti, ai “partigiani della bellezza”, e un posto speciale spetta a Palma Bucarelli: camicia bianca, abito di velluto nero, capelli castani alla Greta Garbo, bellissima, ammirata, sfuggente, una personalità enigmatica e controcorrente. Corteggiata dai gerarchi fascisti, si oppone al modello femminile imposto dal regime e riesce ad assumere la direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nel momento in cui il sovrintendente deve arruolarsi. Con un gruppo di giovani e determinati amici, come Giulio Carlo Argan, destinati a riscrivere la storia dell’arte italiana, crea una rete di nascondigli per le opere d’arte romane, mobilitando anche i funzionari della Città del Vaticano, terra neutrale, aprendo le gallerie segrete di Castel San’Angelo e del Palazzo Farnese di Caprarola, nell’alto Lazio, usando spesso il sorriso e la capacità persuasiva per farsi aprire le porte più segrete dei luoghi ritenuti più sicuri, dove anche gli sbandati, gli ebrei, gli artisti ricercati di Roma città aperta troveranno rifugio e salvezza. Con la sua Topolino 1400 azzurra è lei – una delle prime donne italiane a prendere la patente – a fare da scorta ai camion carichi di tesori. Come immagine della locandina della mostra è stato scelto il volto dolce e luminosissimo della Madonna di Senigallia di Piero della Francesca. Un volto bello, luminoso e fiero, come quello delle donne, che, come Noè, hanno preservato, nascosto, messo in salvo e poi liberato per tutti noi la grande bellezza dell’Italia.
Chiara Magaraggia