Le beghine

24
Dic

Un piccolo mondo di ieri capace di parlare alle donne di oggi

È bello passeggiare lungo le viuzze medievali e i canali di Bruges, con il verde degli alberi e le casette dentellate che si specchiano sulle acque tranquille e trasparenti. Nel punto in cui i canali si allargano, formando un ameno laghetto popolato da candidi cigni, si affaccia un classicheggiante portone sormontato da una piccola edicola con la statua di Elisabetta d’Ungheria, la giovane principessa dedita alla carità e alla cura degli indigenti, patrona delle istituzioni caritatevoli, degli ordini secolari e delle beghine. Sì, il portone è l’accesso a uno dei luoghi più suggestivi di Bruges e di molte altre città del Belgio e dell’Olanda: il beghinaggio, la piccola città delle donne, protetta da una cerchia di mura, in cui le beghine, che per secoli l’hanno abitata, si ritiravano dedicandosi alle loro attività di preghiera, di lavoro, di carità. Varchi quella soglia e sei in un altro mondo fuori da questo mondo.

Le casette sono tutte bianche, con il tetto spiovente, addossate ordinatamente le une alle altre, con bianche tendine ricamate alle finestre, un grande spazio verde al centro come un ampio chiostro aperto, una chiesa dall’architettura semplice, luogo della preghiera individuale e comune, priva del coro, perché non era abitudine delle beghine cantare coralmente: pregavano nella navata e, in tempi in cui era il latino la lingua della Chiesa, usavano la loro lingua parlata, l’antico fiammingo. Ovunque si respira un profumo di pulito, di curato, di gentile. Il viso in pietra di una donna sembra guardarti dall’alto di una colonnina posta vicino all’ingresso, quasi per ricordare al visitatore che è con gentilezza, sobrietà e discrezione che si deve passeggiare, quella sobrietà che caratterizzava la vita delle beghine, quella discrezione che è alla base della loro scelta di vivere appartate ma non rinchiuse, quella gentilezza di cui rimane traccia negli artistici lavori che ci hanno lasciato in eredità, dai dolci ai cioccolatini ai merletti, quelle dentelles oggi patrimonio Unesco, perché il lavoro era un’attività importante della loro vita, necessario per restare autonome da ogni bisogno e da ogni autorità, indispensabile per continuare le attività a favore dei bisognosi. Forse il volto più bello ce lo regala il grande pittore fiammingo del Quattrocento Roger Van der Weyden: una donna di ancor giovane età dagli occhi azzurri e dal viso incorniciato da un velo bianco col realistico dettaglio degli spilli che lo fissano, lo sguardo dolce e sicuro atteggiato ad una espressione di serenità, l’abito marrone, elegante nella sua semplicità, pieghettato sul davanti e profilato di nero.

Né spose né monache, senza fondatrice, senza regola, senza voti perpetui, vedove o nubili, da sole o in piccoli gruppi, a volte accompagnate da una donna che le aiutava nelle faccende domestiche e che condivideva gli stessi ideali di una vita casta e modesta, nel beghinaggio prendevano possesso di una delle casette, che diventava la loro casa, del tutto indipendente dalle altre, a volte affittata a volte acquistata, perché non era prevista la rinuncia alla proprietà o la comunione dei beni. Lì ciascuna provvedeva alla pulizia, alla preparazione dei pasti, al lavoro, allo studio, alla preghiera e alla meditazione individuali, alla cura amorevole del piccolo giardino che è il vero cuore della casa, coltivato con fiori e piante officinali, spesso con un pozzo al centro. Il modello è l’hortus conclusus, lo spazio verde isolato dal mondo esterno, dove la natura può ritrovare la purezza originaria della Creazione e dove il pozzo rappresenta la sorgente della vita. Hortus conclusus nel Cantico dei Cantici è l’attributo della sposa, per diventare col cristianesimo l’emblema della Vergine Maria.

Risale al Quattrocento, la piccola tavola ancora di Roger Van der Weyden, con un’iconografia che probabilmente nasce proprio nell’ambito dei beghinaggi: la Vergine Maria con il Bambino tra le braccia, vestita con l’abito e il mantello di un bellissimo rosso squillante, è seduta, umile e regale insieme, al centro di un giardino completamente recintato da un muretto, tra erbe e di fiori dipinti con la precisione di una miniatura – margherite, fragole, rose che alludono alla verginità di Maria e alla passione di Gesù – proprio secondo la tipologia dell’hortus conclusus e della Madonna dell’umiltà, un’altra delle virtù a cui si ispirava la vita delle beghine. Santificazione nella libertà: è stata chiamata questa scelta così unica, originale e, per molti aspetti, tanto in anticipo sui tempi, forse la prima esperienza di comunità femminile completamente libera dalla tutela maschile, in tempi in cui giuridicamente con il matrimonio la donna passava dalla custodia del padre a quella del coniuge e in cui con la vita religiosa la monaca era comunque sottoposta a regole, a gerarchie spirituali, a controlli rigidamente maschili. Tali caratteristiche sono ancora più clamorose se si considera che la nascita delle prime forme di beghinaggio risalgono alla fine del 1100 e all’inizio del 1200, in un contesto di grande rinnovamento religioso e di grande crescita economica della regione delle Fiandre. È così che donne soprattutto borghesi, cittadine, inizialmente vedove benestanti con un buon bagaglio culturale, esperienze di opere di carità negli ospizi per malati e per orfani e capacità di gestione domestica, decidono di intraprendere un nuovo cammino per vivere la parola evangelica in modo radicale, libero, laico. E sono tante, anche secondo i dati incompleti in nostro possesso: nella sola Bruxelles, nel 1300, su una popolazione di 30.000 abitanti, 5.000 erano le beghine; scarsa la loro presenza in Italia, dove nello stesso periodo si diffondono numerosi i conventi femminili degli ordini mendicanti.

La meditazione sulle Scritture occupa molto del loro tempo; e dalla loro autonomia personale e mentale si genera un’autonomia spirituale altrettanto originale. Così scrive nel 1274 un dotto francescano: “Ci sono da noi donne chiamate beghine. Hanno interpretato i misteri delle Scritture traducendoli dal francese. Esse le leggono insieme, senza rispetto, con audacia, in piccoli spazi, in nicchie solitarie, sulle pubbliche piazze”. Cos’è mai tanto audace nelle loro interpretazioni? E c’è un nesso fra questo atteggiamento e il fatto che per molto tempo di loro si sia parlato pochissimo, i loro scritti ignorati o scomparsi e la parola “beghina” ancora oggi per molti sia usata in senso dispregiativo, sinonimo di donna bigotta? È il rapporto con Dio a creare prima diffidenza e poi condanna: la certezza che l’essere umano possa raggiungere la santità già su questa terra, attraverso un itinerario che è personale e unico per ciascuno: e non sono le regole, non l’obbedienza totale, non l’obbedienza alle gerarchie a condurre a Dio. La via mistica è quella preferita.

Fortunatamente la ricerca degli ultimi decenni relativi alla scrittura delle donne ha permesso di riportare alla luce preziosi testi, alcuni dei quali autentici capolavori poetici e letterari. Attraverso il loro studio, ecco che il profilo di alcune diventa più nitido. Fra tutte emerge la figura della grande e ancora misteriosa Edvige (Hadewijk) di Anversa, vissuta nel 1200, i cui scritti, salvatisi fortunosamente lungo i secoli, svelano ai nostri occhi una personalità di ardita grandezza umana, culturale e spirituale, una donna visionaria, mistica, poetessa divorata dall’amore divino, inquieto, inesauribile, che dona ebbrezza e sofferenza: “Giacevo una notte totalmente affranta/ quando fui rapita in spirito/ E vidi un profondissimo vortice/ e vasto/ e tenebroso/ e in quel vortice/ che era tanto vasto/ ogni cosa era racchiusa/ La tenebra rischiarava e illuminava ogni cosa…”. Una lettura che affascina, attira e inquieta ancora oggi.

C’è dunque da stupirsi se la sto-

ria delle beghine è segnata da tribolazioni, sospetti, calunnie, condanne e roghi da parte dell’Inquisizione? Si commuove Romana Guarneri nel raccontare la scoperta che ha segnato la sua vita a partire dal 1946: in un codice conservato nella Biblioteca Vaticana si imbatte in un piccolo sconosciuto trattatello di contenuto mistico, la versione latina di un testo in francese da pochi decenni a sua volta riscoperto e, dopo vent’anni di studi e analisi, nel 1965 pubblica per la prima volta quello che lei chiama “un autentico bestseller della letteratura mistica di tutti i tempi”, scritto da “uno di quei personaggi che, non c’è scampo, ti mettono sull’attenti. Donna di alta cultura e di altissimo pensiero”. Finalmente ritorna a vivere Lo specchio delle anime semplici, e con lui la sua autrice, Marguerite Porète, attiva nel beghinaggio francese di Valencienne, dedita alle cure dei malati. Di lei si conosceva solo il verbale dell’Inquisizione che la condanna a morire sul rogo a Parigi nel 1310 come scomunicata ed eretica, dopo che già il suo libello era stato bruciato. Ma la storia della morte violenta di Marguerite forse non lascia tutti indifferenti. Era presente in quei giorni nella capitale francese Dante Alighieri, esule, anch’egli condannato al rogo dalla sua Firenze. Chissà… è l’ipotesi affascinante della massima studiosa francese di Dante e traduttrice della Commedia, Jacqueline Risset. In Marguerite le anime diventate semplici e leggere, perché finalmente libere da colpa, legami, vergogna, che rinunciano a se stesse per avvicinarsi a Dio, conoscono l’impossibilità di esprimere la loro esperienza, che è l’esperienza di un folgore d’amore che, annientandole, le unisce a Dio. E proprio l’ineffabile esperienza del folgore è l’immagine con cui Dante chiude il suo Poema: “Se non che la mia mente fu percossa/ da un folgore in che sua voglia venne”. Ora egli stesso sarà un atomo luminoso che ruoterà insieme all’“Amor che muove il sole e l’altre stelle”. Forse insieme a Marguerite Porète.

Chiara Magaraggia

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