La violenza nei ‘Garimpos’ in Amazzonia – 1

12
Feb

Nel mese di febbraio, la memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita riporta all’attenzione di tutti la piaga della prostituzione e, più in generale, del traffico umano. Sarà pubblicata, in più puntate, la testimonianza diretta di Mauge, una giovane donna finita nel giro della prostituzione brasiliana. Il racconto è molto forte, ma vale la pena d’essere letta e meditata. Farla conoscere è uno dei modi per dire “mai più” all’abuso, al traffico umano e alla prostituzione. Qui la versione originale, in portoghese. 

L’intervista a Maugê fa parte della ricerca sul campo svolta nel Consorzio di Ricerca che riunisce l’Osservatorio sulle Migrazioni di Roraima (OBMIRR/UFRR), l’Istituto Conviva e il Pan -Rete Ecclesiale Americana Amazon (REPAM). L’intervista si è svolta nell’aula 53 del Centro di Scienze Umane (CCH/UFRR). In quell’occasione la partecipante stava cercando un sostegno finanziario per curare il cancro cervicale in fase avanzata. Nella conversazione, Maugê ha voluto raccontare la sua storia e ha autorizzato, firmando il modulo di consenso libero e informato (TCLE), l’uso della sua narrazione per scopi di ricerca.

La violenza nei ‘Garimpos’ in Amazzonia (miniere amazzoniche) nel racconto di ‘Mauge’[1]

Mauge inizia dicendo: Mi piace parlare della mia vita. Sono ancora giovane, ma ho vissuto molte esperienze[2]. Sono passato dalla ricchezza alla povertà estrema, al punto di essere nella necessitá di chiedere aiuto per curare questa malattia. Sono nata a Ciudad Guayana, capitale dello Stato di Bolivar. La mia famiglia aveva buone condizioni di vita. Mio padre era un meccanico di aeroplani e lavorava per grandi compagnie minerarie nella regione del fiume Orinoco. Mia madre aveva un hotel di lusso proprio accanto all’aeroporto. Fino ai 15 anni sono stata trattata come una regina. Ho avuto una buona educazione, ho studiato nelle migliori scuole e da quando avevo 8 anni avevo un autista privato che mi portava tutti i giorni al Loyola College, a Puerto Ordaz, dove mi stavo preparando per entrare all’Università Cattolica Andrez Bello, un importante centro gesuita dove studiava l’élite della città.

Quando avevo 15 anni ho incontrato un amico di mio padre, Júlio. Era un ingegnere aeronautico come mio padre e all’epoca guadagnava molto bene, aveva un aereo tutto suo e nei fine settimana faceva viaggi per prendere ordini di parti meccaniche alle compagnie minerarie. Aveva 35 anni ed era in procinto di separarsi. Era il mio primo uomo e i miei genitori lo sapevano. All’età di 16 anni abbiamo deciso di vivere insieme e cosí ci siamo trasferiti subito e ci siamo sposati. Sono diventata mamma quando avevo 17 anni, mia figlia ora ha 10 anni e da quando era piccola vive con i nonni paterni in Spagna. Sono 8 anni che non la incontro, la vedo solo attraverso foto o a volte per videochiamata.

Nel gennaio 2012 mio padre ha avuto un ictus ed è morto. Ero in clinica per partorire mia figlia e non ho potuto partecipare al funerale di mio padre.

Mesi dopo, mia madre dovette cedere l’albergo, profondamente indebitata. Mio fratello maggiore ha cercato di continuare l’attività di mio padre nell’officina meccanica aeronautica, ma ha iniziato a fare più perdite che profitti. Fu allora che mia madre andò a vivere in Spagna, alla fine del 2013. Nel gennaio 2014, mio marito subì un incidente aereo durante uno dei viaggi che faceva nella regione del fiume Orinoco e morì. L’aereo prese fuoco e non era assicurato. Rimasi sola, vedova a 18 anni e andai a vivere con i suoceri perché potessero aiutarmi con mio figlio, ma non andavamo molto d’accordo. Dicevano che ero troppo immatura. In un certo senso avevano ragione. Volevo studiare, uscire, andare alle feste e litigavamo molto perché non approvavano il mio comportamento.

Alla fine del 2014 mi comunicarono la loro decisione di trasferirsi a Barcellona, in Spagna e mi fecero la proposta di portare con sé la bambina perché era l’unico ricordo che avevano del loro unico figlio. Ho accettato e a capodanno 2015 sono partiti con mia figlia Maria Alicia. È stata l’ultima volta che ho abbracciato mia figlia. La stavo ancora allattando quando fu separata da me. Mi mancava molto. Sono andata in depressione, ho iniziato a usare sonniferi, a bere e fumare per dimenticare.

A luglio 2015 mio fratello mi ha invitato a vivere con lui nella vecchia casa di mia madre. Subito nei primi giorni mi ha detto che portava pezzi di ricambio per macchine nelle miniere intorno a El Callao e ho iniziato a viaggiare con lui per aiutarlo nella logistica dei viaggi lungo il Troncal 10. Proprio durante il primo viaggio ho conosciuto un bar nel centro della città dove c‘era uma possibilitá di lavoro come ballerina di poli dance (pole dancing). Ho parlato con mio fratello e lui mi ha risposto che avevamo bisogno di soldi e che per lui andava bene se io lavoravo lì. Lui sapeva che dietro al bar c’era un bordello e che presto avrei lavorato con i minatori. Ma sembrava che non gli importasse, poiché il bisogno di denaro era maggiore.

Così sono entrata nella prostituzione. Nella prima settimana di lavoro come ballerina, ho fatto i miei primi spettacoli nel retro del bar. Le ragazze pagavano una quota al proprietario del bar ogni volta che utilizzavano le sale per servire i clienti. Durante la settimana era un prezzo e nei fine settimana era il doppio. A volte venivano pagati in dollari, ma molto spesso chiedevano il pagamento in oro. Non avevo molta idea dei valori. Quasi tutto ciò che ho guadagnato negli spettacoli l’ho pagato per le tasse e i vestiti di cui avevo bisogno.

Gli affari non andavano bene per mio fratello e iniziò a passare più tempo nei garimpos (miniere) “brasiliane” nella cittadina di Las Claritas, nel sud dello stato (si sottointtende Venezuela). All’inizio del 2016, mi ha chiesto di andare con lui perché ci sarebbe stata una festa e avrei potuto guadagnare soldi extra alla polidance. In fondo sapeva che quello che guadagnavo veramente era con il lavoro della prostituzione. Siamo rimasti lì una settimana dopo la festa, ma era tutto molto difficile, tanti minatori se ne andavano a causa dei conflitti con gli indigeni dei dintorni, c’erano molta violenza e pochi soldi. Fu allora che mio fratello parlò con alcuni amici brasiliani che lo invitarono a lavorare nelle miniere dalla parte brasiliana. Eravamo quasi senza soldi, ma riuscimmo a pagare il biglietto per Boa Vista. In questo modo i soldi sono finiti una volta per tutte. Siamo stati ospiti nella casa di un amico di mio fratello per qualche giorno, ma non ha funzionato. La moglie era evangelica e quando ha scoperto quale era il mio ‘lavoro’, mi ha chiesto di andarmene lo stesso giorno.

Mio fratello era partito per una delle miniere e io non avevo altro posto dove andare. Sono finita a vivere per strada, vicino alla stazione degli autobus. Era un tempo piovoso e sono stati giorni molto difficili. Finché non ho incontrato un’amica che mi ha invitato a vivere con lei in una stanza in affitto nel Bairro Pricumã; lei era nel giro della prostituzione e iniziai ad andare con lei in “piazza”. Nelle prime settimane guadagnavo solo quanto bastava per aiutare con le spese della stanza. Nelle settimane successive è andata meglio. Ma capii presto che la “piazza” era molto contesa e satura a causa dell’arrivo di venezuelane e brasiliane, che tornavano dopo aver lasciato le stesse miniere e per gli stessi motivi per i quali io ero fuggita.

Noi dormivamo un po’ durante il giorno e verso le 17 andavamo nel ‘nostro posto’ dietro la Feira do Passarão, nel quartiere di Caimbé, in Rua Ivone Pinheiro. Altre volte andavamo in uno dei bar e lá incontravamo i clienti. Ma c’erano notti e persino settimane in cui riuscivamo a malapena a mangiare. Fu in uno di questi bar del Passarão che abbiamo conosciuto Fátima, nota leader di garimpos. Ci ha parlato della possibilità di portarci a lavorare a Lethen, nella Guyana Inglese. Ma non era per trasferirci ad abitare in quel luogo. Dovevamo semplicemente recarci in un luogo per incontrare i garimpeiros per certo tempo e tornare a Boa Vista. Andavamo con i mezzi pubblici, in pulmini che fanno questa traiettoria. Fatima ci ha fatto pagare in anticipo il biglietto di andata e ritorno. Nel primo viaggio ci ha addebitato 400 reais a testa e io sono riuscita a guadagnarne solo 250 perché c’era poca clientela. Ma nonostante questo, ho continuato ad andare usando questi mezzi di trasporto. Andavamo giovedì pomeriggio e tornavamo lunedì mattina. C’era un intero schema per noi per arrivare e lavorare senza avere problemi a entrare e uscire. Abbiamo finto di essere venditori ambulanti, così da non attirare l’attenzione, ma penso che tutti sapessero che stavamo lavorando nel giro della prostituzione.

In uno dei viaggi in queste aree minerarie nella Zona 9 della Guiana, sempre nelle aree indigene, Fátima mi ha chiesto se volevo continuare il viaggio a Paramaribo, nello stato Suriname. Io e la mia amica abbiamo accettato più per avventura e per conoscere altri posti che per altri motivi. Fu un viaggio molto difficile. C’erano tratti che erano percorsi via terra e altri con piccole imbarcazioni. Fatima aveva un preciso schema con questi viaggi. Abbiamo attraversato molti garimpos per lasciare provviste e parti meccaniche che Fátima vendeva e consegnava ‘por encomenda[3]’ (su ordinazione). Abbiamo viaggiato per 14 giorni prima di arrivare in una località mineraria nel comune di Albina, vicino a Paramaribo. In questo luogo i garimpeiros erano praticamente tutti brasiliani. Fatima aveva molti affari con loro e ci presentava come i sue “segretarie” e gli uomini sapevano già cosa significava questo codice.

Appena arrivate abbiamo capito che eravamo per lei come una sorta di “regalo” che portava ai minatori che con lei contrattavano per ricevere pezzi meccanici e altre merci. Quando gli incaricati venivano a ricevere la merce e a pagare, lei ci offriva a loro. Il secondo giorno, alla fine del pomeriggio, sono arrivati 15 incaricati per contrattare con Fátima, e dopo aver concluso gli affari sono entrati nella stanza dove eravamo noi due e abbiamo dovuto ‘servire’ i 15 uomini in una volta. È stata una delle notti peggiori della mia vita. Il giorno dopo non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Mi faceva male tutto il corpo. La mia amica aveva la febbre tanto era rimasta ferita. Dopo questo secondo giorno, ogni notte era uguale. Il sabato i minatori arrivavano nel villaggio e Fatima ci offriva ai diversi gruppi. Lo chiamava ‘sesso collettivo’, ma quello era stupro collettivo in quanto ero sola a ‘servire’ più di 20 uomini in una notte. Abbiamo trascorso circa 15 giorni in questo posto e non è passato un solo giorno in cui non fossi stuprata dagli amici di Fatima. Alla fine siamo arrivate a Paramaribo per le ultime consegne di Fatima, ma lì non ci ha offerto ai suoi amici. Da lì siamo ritornate per altri sentieri. Abbiamo impiegato meno tempo per raggiungere la Zona 9 in Guyana, trascorrendo ancora circa 5 giorni nei luoghi di prostituzione prima di arrivare a Lethen. Tutti questi posti sono localizzati in aree indigene. Alcuni garimpos sono amministrati da indigeni, altri da brasiliani. Di questi ultimi molti provengono dal Maranhão e dal Pará. Fatima si è fermata in 5 miniere brasiliane per offrirci ai supervisori. Questi ci hanno fatto dei “doni” che erano pochi grammi d’oro che dovevamo consegnare a Fatima. Arrivate a Boa Vista, ha detto che avrebbe venduto l’oro e il ricavato l’avrebbe diviso tra noi. Alla fine ci ha pagato meno di millecinquecento reais ciascuna. Non sono bastati nemmeno per pagare le medicine di cui avevamo bisogno per riprenderci dalle infezioni che abbiamo contratto durante il viaggio.

Mio fratello non si vedeva da tempo. Un fine settimana ha chiamato al mio cellulare e ha detto che era in un villaggio chiamato “fofoca do cavalo” (pettegolezzo di cavallo) dove i cellulari avevano copertura. Mi disse che sarebbe venuto a Boa Vista per portarmi a una festa in una di queste miniere sul fiume Uraricoera. Così è venuto e gli ho raccontato tutto quello che era successo in Guyana e Suriname e lui mi ha chiesto di non fare più affari con Fatima perché è una persona pericolosa. Quindi ha detto che era meglio per noi (io e la mia amica) andare a vivere in Alto Alegre e quando avesse avuto qualche possibilitá nella Vila do Taiano o in Paredão, avrebbe trovato lavoro per entrambe, ma la mia amica non voleva venire con noi. Così, all’inizio del 2018, mi sono trasferita in Alto Alegre con mio fratello.

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[1] [L’intervista a Maugê fa parte della ricerca sul campo svolta nel Consorzio di Ricerca che riunisce l’Osservatorio sulle Migrazioni di Roraima (OBMIRR/UFRR), l’Istituto Conviva e il Pan -Rete Ecclesiale Americana Amazon (REPAM). L’intervista si è svolta nell’aula 53 del Centro di Scienze Umane (CCH/UFRR). In quell’occasione la partecipante stava cercando un sostegno finanziario per curare il cancro cervicale in fase avanzata. Nella conversazione, Maugê ha voluto raccontare la sua storia e ha autorizzato, firmando il modulo di consenso libero e informato (TCLE), l’uso della sua narrazione per scopi di ricerca.]

[2] [ Maugê è il soprannome con cui ha voluto essere identificata in questa narrazione. Sembra um diminutivo di Maria Eugênia. Ma non ha voluto dire il suo cognome, anche perché non è l’oggetto di questa ricerca che cerca di mantenere anonimi i partecipanti per garantire la riservatezza].

[3] [Oltre alla prostituzione, questa chefe lavorava come ‘encomendeira’ (venditrice) ossia come persona che riceve denaro o oro come pagamento per portare la mercadoria ai gestori o agli incaricati dei lavoratori delle miniere di oro, generalmente illegali]

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