La trama rosa della giustizia

08
Ago

Dal grande libro della storia, alcune figure di donne che hanno saputo tessere giustizia

“Vai a casa nelle tue stanze, ritorna, ti prego alle tue occupazioni, al fuso e al telaio e sii di stimolo alle ancelle per continuare il lavoro”. Nell’ultimo commovente incontro alle Porte Scee, l’eroe troiano Ettore già presago della morte prossima, dopo averla abbracciata un’ultima volta, esorta la moglie Andromaca a ritornare al quotidiano lavoro di tessitura. Le stanze delle donne, la loro occupazione: un mondo a parte, lontano dai clamori della guerra, lontano dai luoghi del potere, eppure le prime vittime delle decisioni degli uomini, bottino di guerra, schiave aggiudicate come trofei ai vincitori. Quelle stesse stanze delle donne dove Penelope si aggrappa alla tela che sta tessendo per difendere la sua dignità e la sua autonomia. Ogni forma di giustizia umana sembra ignorare il loro destino. Sembra che la vita delle donne sia tessuta su trame di ingiustizie. Per ironia della sorte l’allegoria della Giustizia ha proprio un volto di donna che tiene nelle mani i piatti di una bilancia sospesa a mezz’aria, senza asse centrale: sul piatto alla sua destra un piccolo angelo rivolto verso l’alto regge la corona per il giusto, sull’altro un altro angelo, con la spada sguainata è pronto a colpire il malfattore, puntando verso il basso. Il momento decisivo è quello in cui bene e male vengono posti sui piatti e pesati. Quel che ne segue come premio o punizione, corona o spada, è una conseguenza di quel momento. La centralità della Giustizia nella vita civile è evidenziata dalla corona che orna il suo capo.

È possibile, nel grande libro della storia, incontrare donne che abbiano saputo tessere giustizia e realizzare nel concreto dell’esistenza l’equilibrio fra bene e male? Nella splendida chiesa di San Vitale a Ravenna, fra i multicolori mosaici dal fondo oro che illuminano le pareti spicca fra tutti la figura di Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano (527-565 d.C.). Austera e solenne, è raffigurata con un sontuoso diadema di oro e perle che le scendono splendenti fino al petto, mentre reca un calice come offerta all’altare. Dietro di lei vengono le dame di corte, tutte riccamente vestite e ingioiellate. Due servitori la assistono, nei pressi di un edificio decorato da una fontana, forse il palazzo imperiale. È l’immagine stessa della regalità. Ma non era sempre stata così la sua vita. Figlia di un’attrice e di un domatore di orsi che si esibivano nel grande circo di Costantinopoli, la giovinezza di Teodora si svolge in un ambiente considerato plebeo e dissoluto: la pubblicistica del tempo (come spesso succede nella vicenda di donne arrivate al potere) si è accanita contro di lei, accusandola di condotta immorale, non perdonandole di essere riuscita a conquistare il cuore del grande Giustiniano, che non solo l’ha sposata , ma ha voluto associarla al trono, dividere il potere con lei, dare attuazione alle leggi da lei proposte. Scrive Procopio di Cesarea che “nella loro vita non fecero nulla che non fosse insieme” aggiungendo che “l’imperatrice è sempre dalla parte delle donne sfortunate”. Una piccola nota, ma con riscontri che hanno segnato la storia del diritto romano: la legislazione di Giustiniano modifica fortemente la condizione femminile. Sono rafforzate le leggi sul matrimonio, in particolare quelle che riguardano la dote e il ritorno di questa come patrimonio della moglie in caso di divorzio o vedovanza. Anche i doni del marito diventano proprietà esclusiva della moglie in caso di divorzio (il matrimonio non era allora ancora diventato sacramento); alla donna rimasta vedova viene riconosciuta la quarta giustinianea, un diritto di proprietà sulla quarta parte del patrimonio del marito. Teodora stessa si preoccupa di legiferare per sostenere le attrici e le “donne perdute” con lo stanziamento di somme per il loro onesto sostentamento, si prodiga per la chiusura dei numerosi bordelli, attirandosi accanite critiche e nuove ostilità. Come avrebbe applaudito invece Elisa Salerno, a queste iniziative, 1500 anni prima dell’accusa scagliata dalle pagine de Le tradite! Eppure la storia, l’arte, la letteratura, il cinema non sono mai stati generosi nei riguardi di Teodora.

Dovranno passare tanti secoli perché nelle aule in cui si amministra la giustizia, anche le donne possano indossare toghe e ermellini; la conquista è come sempre faticosa e la storia è in gran parte sconosciuta. “L’avvocheria è un ufficio esercitabile soltanto dai maschi e nel quale non devono immischiarsi le femmine…Sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi, accalorarsi in mezzo allo strepito, vedere la toga sovrapporsi ad abbigliamenti dettati dalla moda e acconciature strane e bizzarre”. Sono queste solo alcune delle motivazioni con cui la Corte d’Appello di Torino, su richiesta del Procuratore generale del Regno d’Italia, nel 1883 annulla l’iscrizione di Lidia Poet all’albo degli avvocati, che precedentemente le era stata concessa. Eppure Lidia Poet aveva compiuto brillantemente i suoi studi: di illuminata famiglia valdese del Piemonte, dapprima si diploma maestra (una delle poche professioni concesse allora alle donne); successivamente ottiene la maturità liceale con cui può iscriversi alla facoltà di giurisprudenza: ed è l’unica donna a farlo! La tesi di laurea che discute brillantemente a 25 anni riguarda i diritti negati alle donne e, per primo, il diritto di voto. Poi saranno gli anni del tirocinio, del praticantato, del durissimo esame di abilitazione, superato con un punteggio altissimo. È a questo punto che la sua carriera viene bloccata dal veto della Corte d’Appello. Ma Lidia non demorde: anche se non può condurre le cause col suo nome e presentarsi in tribunale, è assistente nello studio legale del fratello Giovanni Enrico ed è attivissima nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati, dei detenuti, delle donne, sempre battendosi per il diritto al voto, per l’equiparazione fra figli naturali e legittimi, per il servizio civile delle ragazze. Paradossalmente, esclusa in Italia, riceve invece un prestigioso riconoscimento accademico in Francia per il suo impegno e il lavoro svolto al Congresso Penitenziario Mondiale svoltosi a Parigi nel 1895. Dovrà passare la Grande Guerra perché nel 1920 Lidia Poet venga finalmente ammessa nell’Ordine degli Avvocati ed è la prima in Italia: ha 65 anni!

Una vita spesa a combattere per le cause di chi era escluso dal diritto riconosciuto di avere una valida difesa nelle aule di tribunale come nelle carceri. Il regime fascista cercherà di fermare la sua voce, ma l’avvocata Poet continua per la sua strada. Sarà solo l’età a fermarla, ma non fino al punto di impedirle di vedere realizzato il suo sogno di sempre: la conquista del voto alle donne e la parità di diritti riconosciuti nella Costituzione. Morirà infatti nel 1949, a 94 anni, con la soddisfazione di poter votare nel 1946 e nel 1948. La tela tessuta con tenacia da Lidia Poet è stata portata a termine!

Ci vorranno ancora tanti anni, perché le donne possano accedere alla carriera della Magistratura: solo nel 1965 la partecipazione al concorso sarà possibile: e ben otto ne usciranno brillanti vincitrici. E la tela continua ad essere tessuta: mafia, terrorismo, corruzione, violenza di genere. La giustizia, nella diversità dei ruoli, è sempre più tinta di rosa.

Chiara Magaraggia