Discernere nella storia, istruiti dalla realtà
Bisogna esigere da ciascuno
quello che ciascuno può dare.
(A. de Saint-Exupéry)
Con questo terzo principio – la realtà è più importante dell’idea – papa Francesco sembra in qualche modo suggerirci di essere realisti. È un invito estremamente impegnativo, che rischia facilmente di essere neutralizzato o frainteso se non se ne coglie il rimando a una sorta di senso pratico dall’incredibile valenza critica e interpretativa. Qui occorre attenzione: non è il senso pratico di chi non si pone troppe domande e fa così come ha fatto sempre e come si è fatto sempre. È piuttosto lo stile concreto di chi si lascia veramente istruire dalla realtà, perché ha imparato a farci attenzione senza inventare storie o sovrapporre immagini e, libero da ogni volontà di dominarle, sa abitare le situazioni con capacità di discernimento.
Spesso capita che la realtà e le idee non si incontrino nemmeno. Immersi in un immaginario illusorio di cui non riconosciamo più nemmeno la radice, scambiamo le nostre rappresentazioni per dati di fatto. Allora tante distorsioni offuscano i nostri pensieri. Così chiamiamo “troppo amore” la brutale violenza dei femminicidi, parliamo di “difficoltà economiche” per l’impossibilità di andare in vacanza, definiamo “contatti” i numeri che abbiamo memorizzato nel telefonino, nominiamo come “libertà” tante esperienze in cui, a pensarci bene, siamo esposti a innumerevoli pressioni culturali, simboliche, politiche, di cui nemmeno ci accorgiamo.
Altre volte, invece, realtà e idee si incontrano, ma malamente. Accade allora un disastro. Si misura una distanza incolmabile tra ciò che si immaginava e ciò che è, e di fronte a quell’abisso della smentita si abbassa lo sguardo, per proteggersi dalla percezione del proprio limite. In questo disagio spesso è la realtà a venire sacrificata, rivestita di infinite maschere, nominata attraverso false ricostruzioni e gestita con pratiche di puro godimento, pur di non averla di fronte nella sua drammaticità. Nell’inevitabile distorsione, i migranti devono andarsene perché sono pericolosi terroristi, le donne picchiate e violentate non hanno diritto di fare le vittime perché il loro atteggiamento non è innocente, i giovani sono senza lavoro perché non si accontentano e non sanno fare sacrifici, le famiglie non reggono a causa del femminismo, le chiese si svuotano perché questa cultura perversa ha ucciso Dio e ha soffocato ogni desiderio di esperienza del sacro, e “io” ho diritto alla rabbia della frustrazione in un mondo impreparato ad accorgersi di chi vale veramente. Si trovano qui le radici di quella “cultura dello scarto” contro cui si scagliano le parole di papa Francesco (EG 53).
Tra la realtà e l’idea ci dovrebbe essere invece uno scambio continuo, un scambio che non teme l’attrito, ma che nel caso di una tensione – inevitabile, dice la nostra esperienza – dovrebbe sempre salvare la realtà. Solo i violenti si ostinano a credere che se le situazioni non corrispondono alle rappresentazioni, sono le prime a essere sbagliate. È indubbiamente faticoso e destabilizzante correggere il proprio immaginario, ma se non si ha il coraggio di farlo è la realtà a morire, e sono il soggetto e le sue relazioni a disfarsi sotto l’urto di ciò che, anche se non visto, si fa comunque sentire.
Che la realtà sia più importante dell’idea lo si vede anche nel Vangelo, la cui prospettiva incarnata consente di riconoscere questo principio in ogni esperienza umana, come traccia sapienziale. È questo, in fondo, lo stesso realismo espresso nelle parole del piccolo principe, che invitano a “esigere da ciascuno ciò che ciascuno può dare”. Non di più e non di meno.
Con questa precisazione si apre un doppio versante della questione: da un lato si tratta di accettare i limiti, di prendere le cose per quello che sono, di accontentarsi di ciò che si ha e si è, e dall’altro si tratta di fare di tutto perché le risorse presenti possano essere riconosciute, valorizzate, sviluppate e impiegate per avviare buoni processi. È un appello a godere ma anche a non sprecare nulla di ciò che è dato.
In questa prospettiva, il principio di una realtà più importante dell’idea risulta estremamente impegnativo, dato che rifiuta sia la comoda pacificazione in cui si rifugia chi non vuole prendersi cura di nulla, sia la rassegnazione di chi lascia perdere ogni sogno, giudicando utopico ogni progetto di trasformazione positiva di sé, delle relazioni e dei contesti. Avere senso pratico significa dunque leggere e trattare la realtà come intrisa di bene da promuovere e di male da vincere. Quando scrive EG, papa Francesco ha in mente tutto questo come qualcosa di profondamente radicato.
Lo si vede per esempio in Amoris laetitia, esortazione apostolica che non soffoca la complessità emersa dal confronto ecclesiale e che fa i conti con le narrazioni di esperienze reali, che raccontano di resistenze, tensioni, fallimenti nelle relazioni affettive. Il bene qui non è un riferimento calato dall’alto, contro la complessità della vita, ma si fa stile di accompagnamento reciproco nelle diverse storie vissute, nelle quali – se ci si lascia guidare dallo Spirito – si intravede la presenza di Dio. Anche nelle situazioni più difficili, dunque, abita la grazia del Vangelo, che non deve essere ostacolata attraverso un impianto ideale mortifero. Si tratta allora di imparare a leggere i segni dei tempi come frutto della promessa del Signore, che come uomo di Israele ha fatto esperienza di un Dio che si rende presente liberando e custodendo il futuro, e che nello Spirito ha garantito di essere con noi “fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Oltre a fare i conti con ciò che manca, dunque, si deve fare attenzione a ciò che c’è. Spesso le risorse non sono riconosciute e valorizzate perché il linguaggio non è pronto a nominarle. La situazione delle donne nella Chiesa è da questo punto di vista emblematica: sul piano dell’ordine simbolico notiamo un linguaggio che oscilla tra esclusione e idealizzazione, mentre sul piano pratico si verificano movimenti diversi, decisamente più incoraggianti. Lo fa notare anche il teologo Christoph Theobald nel suo libro intitolato Vocazione?!, che si apre con la lettera di un amico in cui viene messo in luce lo scarto, deprimente ma anche promettente, tra le parole e le situazioni concrete. Si racconta di una situazione capitata in una comunità nel sud della Francia che, radunata in chiesa per la messa, aspetta un parroco che non arriverà, perché ha purtroppo avuto un incidente. C’è da spiegare la situazione e lo fa una donna, che poi si mette a guidare l’assemblea nella preghiera. Il coro, diretto da un uomo, fa quello che deve fare, accompagnando la celebrazione con il canto. Questa lettera esprime una sorta di stupore intelligente riguardo il fatto che quella comunità, anche senza il suo pastore, continuava a esistere, e sottolinea con forza che mancano le parole per dirlo. Ed ecco la preziosa domanda di Theobald, che va presa sul serio: “siamo sufficientemente in ascolto di ciò che Dio ci offre effettivamente da vivere attraverso questa prova ecclesiale?”. Se guardiamo al piano delle idee e delle nominazioni, forse no. Tuttavia la pratica è già oltre.
Lucia Vantini