Per fortuna i 500 anni della Riforma protestante si celebrano solo una volta ogni 500 anni! Nel corso di questo 2017, nel quale ricorre il quinto centenario della Riforma, mi è capitato, in alcune occasioni, di fare questo commento scherzoso con amici anche ecumenici, pensando alla sovrabbondanza di momenti di incontro e approfondimento e studio che sono stati (e saranno ancora) proposti e richiesti da varie parti. Certo, c’è di che rallegrarsi del fatto che, anche in un Paese come il nostro, il protestantesimo e le sue origini storiche non siano percepiti solo come qualcosa di lontano nel tempo e nello spazio, ma come un interlocutore per il presente. D’altro canto, la sovrabbondanza di iniziative concentrate in un solo anno non garantisce che anche questo interessante soggetto non cada nel dimenticatoio dopo qualche tempo. Ma aldilà di queste considerazioni, vi è una dimensione più importante che può – e, in relazione al tema scelto per questo numero di Vita nuova, deve – essere articolata.
Il protestantesimo viene oggi ricordato, in maniera precipua, in riferimento al proprio sviluppo storico, spesso offrendo una carrellata di profili di quanti sono considerati i suoi “fondatori”, invitando a considerare ciò che da esso è nato e si è sviluppato. Nel corso dell’ultimo decennio, la Chiesa evangelica in Germania (EKD), organizzazione che collega tra loro e coordina il lavoro delle diverse chiese evangeliche regionali tedesche, ha proposto ogni anno un tema differente da approfondire nel corso di un anno in relazione alla Riforma: Riforma e politica, Riforma e istruzione, Riforma e musica, eccetera. Effettivamente la realtà della Riforma protestante è anche questa; un movimento che ha determinato, innanzitutto nel quadro della società europea ma anche in altri contesti, dei cambiamenti molto forti relativamente alle idee portanti della società: un modo nuovo di percepire il proprio compito lavorativo, un modo nuovo di rapportarsi al potere, un modo differente di valorizzare l’istruzione. La domanda importante è se tale realtà sia effettivamente quella che è stata percepita come determinante e fondamentale da parte della Riforma stessa, oppure se, in modo più appropriato, la realtà più profonda alla quale la Riforma ha voluto dare parola nel suo agire non sia quella che trascende la realizzazione umana? Ebbene, il fatto che la domanda venga posta in questi termini, suggerisce già una strada.
I riformatori del XVI secolo – ben oltre la vis polemica che ha animato molti dei loro scritti (e su questo tema potremo tornare un’altra volta!) – hanno voluto dare voce a quello che, senza voler essere troppo approssimativi, ma al tempo stesso molto diretti nella formulazione, è uno dei presupposti fondamentali della vita di fede, anzi, meglio ancora, è la linfa del credere: ovvero il convincimento che Dio non è un’idea o un’ipotesi, ma una realtà che determina l’esistenza concreta di chi a Lui si affida. Nel sermone di apertura del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi in Italia, svoltosi a Torre Pellice (Torino) lo scorso agosto, il decano della Facoltà valdese di teologia, Fulvio Ferrario, ha sintetizzato con queste parole il senso di tale prospettiva della Riforma: “La Riforma ha testimoniato la realtà di Dio raccontando la storia di Gesù. Spesso lo ha fatto in modo incredibilmente sintetico, concentrando tutta questa storia in una sola parola per volta: croce; giustificazione; grazia; fede; o anche nella parola: ‘parola’. In ognuno di questi termini c’è tutta la vicenda dell’uomo di Nazareth, da punti di vista diversi. E ognuno di essi entra direttamente nella vita delle donne e degli uomini, nel loro mondo di fede, ma anche nella loro esistenza secolare. L’evangelo non è soltanto una nuova immagine di Dio, un modo diverso di pensare a lui. I malati non sono guariti da un pensiero su Dio; i pani non sono moltiplicati da una ‘teologia’ nuova, per quanto brillante; la preghiera non è riflessione su un concetto, bensì richiesta a un ‘tu’. […] L’evangelo è che Dio afferra l’essere umano come la Guardia costiera salva i naufraghi. […] La chiesa della Riforma non ha altro da dire: racconta la realtà concretissima di Dio nella storia e nelle storie di Gesù, in mille modi e con mille immagini”.
Non ho difficoltà, sperando di aver colto l’essenziale di ciò che si afferma, nel dire che la Riforma propone, con un apparato categoriale molto diverso, di guardare a Dio come all’oggettività armoniosa, prendendo le distanze da quel nominalismo formale che riduce la realtà di Dio ad una sorta di idea priva di consistenza. In ultima istanza, la sfida che è posta dinnanzi al cristianesimo del nostro tempo è proprio quella di confrontarci con quella strana forma di “tolleranza” che non ha difficoltà ad accettare l’idea di Dio, pur rifiutandone la realtà. Ovviamente, in tale accettazione, si parte dal presupposto secondo il quale l’idea è innocua, inoffensiva, non impegna. Se Dio è un’idea, posso accettarlo, perché passa accanto alla mia vita reale, senza avere più pretese di quante non ne abbiano molte altre idee. Se Dio assumesse una consistenza maggiore, sarebbe più difficile ignorarlo.
Il cammino ecumenico nell’oggi passa anche per questa strada di testimonianza: non si tratta solamente di mostrare l’unità nella diversità riconciliata; non si tratta soltanto di mostrare la molteplicità che si articola all’interno di uno stesso credo, senza necessariamente portare ad una divisione; si tratta anche, e proprio, di rendere consapevole il popolo cristiano che non ci trastulliamo con idee o prospettive che, nel migliore dei casi, rendono la vita un po’ meno penosa. La realtà di Dio avanza una pretesa differente sulla vita del mondo, più articolata, più profonda. Rendercene conto è il primo passo per poterne parlare come di una dimensione che, nella sua concretezza, orienta la vita.
William Jourdan, pastore valdese