Invocare pienezza e fraternità, anche nella tempesta e quando il cielo sembra “chiuso”
Invocare è una delle modalità di preghiera più presenti nelle Scritture, in quanto esprime il bisogno profondo di chiamare vicino Colui che nell’esperienza di fede si percepisce insieme assente e presente. A dire il vero tutte le relazioni significative vivono di questo paradosso, che impedisce alla presenza dell’altro/Altro di trasformarsi in vicinanza scontata e all’assenza di diventare lontananza vuota. L’invocazione, nelle sue differenti espressioni, contiene in sé più della richiesta di prossimità, dal momento che chiama invocante e invocato ad essere “in”. E l’esito di ogni preghiera, quando non sia semplicemente dire orazioni quanto entrare in relazione, è appunto l’immersione “in”: noi in Lui e Lui in noi.
Invocare a cielo chiuso
“Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19)
Il cielo chiuso non è solo un’immagine disperante, è purtroppo quanto sentono tanti contemporanei a fronte di una dimensione di trascendenza entro cui non ci si colloca più quasi naturalmente. Gli antichi dicevano che l’essere umano è capax Dei (capace di Dio in quanto a sua immagine) e ritenevano aperta la comunicazione tra cielo e terra. Non è più così. A svuotare il cielo è l’indifferenza crescente, ma anche la religiosità abitudinaria. Il cielo rimane chiuso per chi non ha tempo per Dio e per quanti si sostituiscono a Lui. Non si guarda in alto perché totalmente occupati a consumare e produrre, ma pure per l’orizzonte di mediocrità al quale ci si riduce per mancanza di aspirazioni. L’invocazione del profeta prende atto che i cieli sono come una cappa, sopra e dentro di noi, e condivide la pesantezza di una realtà chiusa in sé stessa e quasi condannata a non poter andare oltre. Eppure non si rassegna e chiede uno squarcio, confidando che possa avvenire. Non è tuttavia il nostro invocare che apre i cieli, ma il suo scendere verso noi. Pregando, si entra un po’ alla volta nella comprensione del volto di Dio e lo si invoca perché si intuisce che non può che essere un Dio desideroso di aprire i cieli e scendere tra noi e in noi. Ancor più la preghiera che si fa guardando a Gesù di Nazaret non ha come interlocutore una divinità da smuovere e convincere a forza di parole nostre, ma Colui che è tutto proteso verso di noi come testimonia l’intera storia della salvezza. Quel “se tu squarciassi” non è dubitativo, è espressione di un desiderio condiviso, che nella preghiera fa incontrare due partner alla ricerca uno dell’altro.
Invocare nella tempesta
“Non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4,35)
Tutte e tutti ricordiamo la preghiera di papa Francesco durante il Covid, sotto la pioggia, in una Piazza San Pietro deserta e spettrale. Una invocazione fatta identificandosi con i discepoli sulla barca nel colmo della tempesta, rivolgendo a Dio una protesta per il suo apparente disinteresse: t’importa o non t’importa di noi? L’esperienza da cui sgorga la preghiera, quella della tempesta, racconta di noi in situazioni diverse e anche simili. La traversata della vita ne è segnata, impossibile solcare il mare senza che prima o poi una tempesta non ci faccia sentire perduti. Se prendiamo il salterio, la raccolta di 150 preghiere presenti nella Bibbia, la maggior parte sono invocazioni di chi si rivolge a Dio dal limite della propria esistenza o da eventi di popolo distruttivi. C’è anche il ringraziamento e la lode per lo scampato pericolo, ma la testimonianza più ricorrente è di essere ancora in mezzo ai flutti. Invocazioni e preghiere sono testimoniate anche da quanto si trova nelle carrette del mare, le imbarcazioni che trasportano i migranti in cerca di una terra promessa e spesso respinti o lasciati a morire tra le onde: pagine di Bibbia, di Vangelo, del Corano. Dall’immenso cimitero, che per noi è il Mediterraneo, si alzano invocazioni che dovrebbero scuoterci e farci solidali. Ciò che invocando rinfacciamo a Dio non può non diventare appello per noi, in modo che non si continui nella globalizzazione dell’indifferenza più volte evocata dal papa. E l’invocazione non è che può cessare una volta che siamo in salvo noi, perché la preghiera ci fa sentire perduti e salvati insieme nell’unica barca dell’umanità e della creazione.
Invocare fraternità
“Come vorrei che tu fossi mio fratello” (Ct 8,1)
Dall’Amata del Cantico dei Cantici prorompe un’invocazione dettata dall’amore forte per l’Amato. Questa donna, che rappresenta insieme l’umanità desiderosa d’amore e Dio in cerca di un’alleanza sponsale con noi, invoca il dono di una fraternità più stretta di quella biologica. Nel salmo si prega per sperimentare quanto sia dolce che i fratelli stiano insieme, senza idealizzazioni comunque, dato che fin dall’inizio la storia è segnata dall’uccisione del fratello. Invochiamo fraternità per non assuefarci alle guerre fratricide e la invochiamo anche nei confronti della creazione, che vede noi umani sfruttare e violare gli elementi della natura, mentre con Francesco d’Assisi dovremmo chiamarli fratello e sorella. L’invocazione di fraternità è insita nella preghiera che Gesù ci ha insegnato, rivolta ad un Padre che non è possesso di ciascuno, ma unicamente nostro, di tutte e tutti resi figli nell’amore e quindi sorelle e fratelli tra loro. La preghiera dovrebbe allenarci ad accogliere con questo desiderio ogni persona e per primi coloro che consideriamo stranieri e quindi estranei, quando non addirittura nemici: Vorrei che tu fossi mio fratello! Ad invocare fraternità, nel testo biblico, è l’Amata e lo fa verso il suo partner. Come non cogliere una provocazione rivolta alla relazione di coppia, che troppo spesso si deforma fino ad essere possesso? Una preghiera che invochi fraternità andrebbe promossa quale antidoto alle violenze dovute ad una maschilità tossica, che non si pensa come fraterna nei confronti delle donne e quindi degenera fino alla tragedia dei femminicidi.
Invocare pienezza
“Signore, dammi di quest’acqua”
(Gv 4,15)
Ci viene spontaneo pensare che la preghiera di invocazione sorga sempre da situazioni problematiche o negative. Invoca chi non ne può più, chi si trova allo stremo, chi si sta inabissando. È vero che la donna samaritana era passata attraverso fallimenti amorosi, ma l’invocazione a Gesù le esce dalla bocca e dal cuore quando le viene fatta balenare la possibilità di una pienezza inimmaginabile. La preghiera viene unicamente a riassestare i cocci rotti, a rattoppare situazioni lacerate, oppure pregando s’invoca un dono di pienezza che apre alla possibilità di essere felici? La saggezza popolare afferma che bisogna guardare a chi sta peggio. In quest’ottica non potremmo permetterci di invocare felicità, a fronte di bisogni estremi e di realtà tragiche. E tuttavia la proposta di Gesù di Nazaret si chiama Vangelo, buona notizia che riempie la nostra sete, rispondendo al desiderio di beatitudine che abita il cuore. Nel mentre si invoca pienezza, l’esperienza del pregare diviene percorso nel quale il nostro desiderio di felicità si affina e si precisa, facendo discernimento di tutte le proposte illusorie che ci portano a felicità effimere e accrescono l’infelicità. Ricordiamo l’invocazione di Tommaso Moro: “Signore, dammi una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore per mantenerla”. Non dimentichiamo che Gesù sulla tavola dell’eucaristia ha messo non pane e acqua – ciò che è strettamente necessario per vivere – ma pane e vino, per una vita saporosa e lieta, condivisa e resa possibile all’umanità intera.
don Dario Vivian