Riportiamo la proposta sulla povertà curata da sr. Annamaria Confente per l’esperienza di metà luglio a Gallio vissuta da un gruppo di laici e suore.
Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta «Bella» a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: «Guarda verso di noi». Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto. (Atti 3,1-10)
Commento
In questo brano (oltre al messaggio centrale: la guarigione di uno zoppo) possiamo raccogliere informazioni su vari tipi di povertà; i protagonisti manifestano ricchezze e povertà in cui possiamo rispecchiarci tutti. (Nella prossima relazione, sentiremo che anche Madre Giovanna ha sperimentato la povertà e non solo di beni materiali). Ci tornerà utile e costruttivo se oggi facciamo l’esperienza di sentirci tutti, da una parte come lo storpio e dall’altra come Pietro; siamo tutti poveri, bisognosi di essere guardati per quello che siamo, da Gesù, dai fratelli e dalle sorelle e siamo tutti come Pietro capaci di “portare Cristo” e la sua forza che rigenera, noi e gli altri.
Consideriamo la povertà materiale, fisica ma ci soffermeremo in particolare sulla necessità e la “efficacia” della povertà nello spirito. Tale povertà, non è data esclusivamente dalla privazione materiale, ma soprattutto dalla consapevolezza di essere poveri, limitati fin dalla nascita, bisognosi di tante cure, di presenze, di cose.
La povertà di spirito va intesa come capacità recettiva e apertura che è il contrario dell’autosufficienza; appartiene a chi sa che la sua vita cresce, sia per l’impegno e la determinazione personale, sia per la disponibilità ad aprirsi per lasciarsi riempire dall’amore, dall’aiuto, dalla presenza, dalla misericordia degli altri e di Dio. Così la vita fluisce, scorre dagli uni agli altri; così si cresce, si acquista solidità e stabilità: in un certo senso si “diventata ricchi” e si apprende la disponibilità a donarci agli altri.
“Essere poveri è un’occasione di Grazia” (Papa Francesco)
Lo costatiamo nel brano di Atti 3, 1-10
Contesto del brano Il racconto segna il passaggio dal giorno della Pentecoste (2,1-41) alla vita quotidiana della Chiesa a Gerusalemme. Sono le ore 15.00 e Pietro e Giovanni stanno andando a pregare al tempio. L’esperienza permette a Pietro di compiere una guarigione, di chiarire che essa è avvenuta nel nome di Gesù e di annunciare Cristo, morto e risorto. Questo episodio sarà, per Pietro e Giovanni, causa di una azione giudiziaria di fronte al sinedrio (4,7-22) e dà l’avvio alla prima persecuzione.
Prendiamo in considerazione i vari protagonisti dell’episodio
- C’è uno storpio che viene portato al tempio da alcune persone, perché chieda l’elemosina a coloro che passano per entrare nel tempio. Sono persone generose perché fanno un servizio di carità, ma nessuna di esse è in grado di cambiare la situazione dello storpio, che permane nella infermità.
Sicuramente alcune persone entrando al tempio avranno dato del denaro e si saranno sentite soddisfatte o buone per aver fatto un gesto altruista, come spesso capita a noi. Ma questo non basta per cambiare radicalmente il problema dello storpio. Sappiamo bene che è più facile mettere mano al portafoglio che impegnare il proprio tempo, le proprie energie, la propria ricchezza interiore; è più facile fare elemosina che giocarsi in una relazione con i poveri.
Lo storpio non ha un nome, cioè non ha una identità, non è riconosciuto; rappresenta una serie di povertà che vanno oltre l’aspetto fisico:
– non può camminare, non può andare liberamente dove vuole, deve stare dove lo pongono e chiedere l’elemosina; è totalmente dipendente dagli altri, condizionato dai limiti fisici, culturali, sociali.
Similmente “non possono camminare” i malati, i diversamente abili, i minorenni sfruttati, “resi storpi” e limitati nella loro dignità dalla violenza o dalla prepotenza.
Lo storpio “non può lavorare”, è incapace di disporre di sé sul piano economico. Così sono tanti poveri a cui non è data la possibilità e la dignità di un lavoro.
– Lo storpio è costretto a “guardare le persone dal basso”, posizione che lo mette in condizione di inferiorità rispetto agli altri; gli è negata una relazione paritaria.
– È rattrappito, è solo con la sua sofferenza, come tante persone che per vari motivi soffrono di solitudine, vivono isolate e chiuse in se stesse.
– È emarginato socialmente e religiosamente (non può nemmeno entrare nel tempio perché malato… quindi reietto (rifiutato) anche da Dio; può sentirsi “uno sbaglio”, e può pensare che sarebbe “meglio non essere nato”.
Molte persone si sentono non volute, non accolte, pensano di se stesse che sarebbe meglio non essere nate; ci sono emarginati – perseguitati cui sono negati i diritti umani e /o la possibilità di esprimere la propria fede.
E ci sono emarginati a causa di un mancato accesso agli ambiti di istruzione e di formazione; ci sono persone che non riescono ad essere incluse negli stili e negli standard di vita che la cultura accredita; ci sono altri ambiti da cui si può essere o sentirsi esclusi.
Tutte queste situazioni esprimono povertà sia da parte di chi le subisce sia da parte di chi le genera.
– Lo storpio rappresenta anche l’immobilità dell’animo; il non “camminare dentro”, può significare l’accontentarsi di ciò che si è raggiunto, l’essere soddisfatti del “dove si è arrivati”; significa non cercare più, non coltivare più sogni, speranze, desideri, non tendere più alla grandezza di cui siamo capaci; significa accontentarsi della formazione cristiana ricevuta nel passato, lasciarsi condizionare dall’età, dalla pigrizia, dal “si è sempre fatto così”, dal rassegnarsi alla propria situazione.
– Lo storpio ricorda l’essere piegati in se stessi, nei propri problemi. Questi vanno ascoltati e accolti, ma potrebbero chiuderci nel nostro dolore, in un atteggiamento vittimistico, che ci fa sentire oppressi, perseguitati, osteggiati e danneggiati da persone e circostanze. In attesa che magicamente succeda qualcosa, non si assume la responsabilità di ciò che ancora è possibile essere o fare.
Questi atteggiamenti sono grandi povertà che influiscono negativamente nelle relazioni. Se manca un po’ di fiducia, di speranza, aumenta il malessere.
Lo storpio è portato. “Essere portati” nasconde un senso positivo e un aspetto negativo
Portare con pazienza le fatiche degli altri, saper aspettare i tempi di crescita dei figli, le idee diverse dalle proprie è indice di maturità umana e grande senso di responsabilità.
Ma capita, di “essere portati”, per esempio, dove vuole il mercato; esso ci porta a comperare tanto, ad accumulare beni in eccesso facendoci credere che ciò garantisce salute e felicità; la legge del mercato ci fa sentire costantemente la mancanza di qualcosa, o di un particolare tipo di cose, senza le quali ci fa sentire inferiori, poveri ed emarginati.
Così, l’offerta di piccoli, momentanei piaceri, di surrogati di relazioni, ci ruba la gioia profonda della libertà dalle cose, della gratuità solidale, del cuore aperto alla fiducia.
E si può essere portati da luoghi comuni acriticamente: “fanno tutti così!” Si rischia di tradire la preziosità della riflessione, del saper pensare, valutare e discernere i fatti della vita; essere portati dal “sentito dire” è accontentarsi di verità parziali o di interpretazioni distorte, sia per quanto riguarda la vita sociale come quella ecclesiale.
Questo atteggiamento dell’essere portati impedisce o riduce la responsabilità personale e tende a conservare lo status quo; cioè non cambia le situazioni; non fa crescere le persone, anzi conferma povertà, disagi e dipendenze.
sr. Annamaria Confente