Suor Rosa Lupoli è l’ex abbadessa del monastero delle Clarisse cappuccine di Napoli. Laureata in lettere a pieni voti, è entrata in monastero lasciando anche un’altra sua grande passione, la pallavolo, sport che l’aveva fatta giocare anche a livelli agonistici. È una donna molto solare, felice della sua scelta di vita, molto aperta e comunicativa: è stata lei una delle prime abbadesse italiane ad avventurarsi nel web e nei social media, suscitando anche polemiche, cui ha risposto con un sorriso e la ferma convinzione che questi sono luoghi da abitare anche per chi è in clausura. Attualmente le clarisse del suo monastero sono tredici, con una media di 67 anni di età. Abbiamo chiesto a lei di raccontarci come interpreta nella sua vita il quarto principio di Evangelii gaudium – “il tutto è superiore alla parte” – dall’angolatura possibile a chi è in clausura e che, talvolta, viene considerato estraneo al mondo.
Suor Rosa puoi presentarti brevemente? Chi sei? Cosa fai?
Mi chiamo suor Rosa Lupoli, ho 52 anni e sono una monaca cappuccina. Vivo felicemente una vita stabile nel monastero di Santa Maria in Gerusalemme nel cuore del centro storico della bellissima Napoli! Quest’anno, il 25 marzo, ho celebrato il mio 25° anniversario di consacrazione monastica ed è stata un’occasione speciale per rendere grazie al Signore per questo affascinante viaggio che ho fatto con lui e che continua naturalmente! Per una vita come la nostra, pensata da tanti come ferma, statica, immobile, ho voluto scegliere invece la metafora del viaggio associandomi spiritualmente a tutte le donne che fin dall’inizio seguirono Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. Questa embrionale sororità, composta di donne di vario genere, che dal lago di Tiberiade passando per la croce del calvario al mattino della risurrezione, scelsero di stare col Maestro, da lui furono prescelte per essere le prime a vederlo Risorto e a ricevere il mandato dell’annuncio più incredibile della storia del mondo, presente, passata e futura!
Il quarto principio di Evangelii gaudium aiuta a ripensare alcuni luoghi comuni secondo i quali vocazioni molto particolari – come quella alla vita monastica di clausura – sono inutili. Invece papa Francesco ci motiva a comprendere che viviamo in un ecosistema in cui tutti abbiamo la nostra parte, il nostro ruolo… cosa pensi a questo proposito?
Nel nostro cammino di formazione ci è sempre stato insegnato che il mistero di Gesù Cristo è tanto grande che nemmeno la chiesa con la sua molteplicità di carismi può esaurirlo. Ognuno può fare la sua parte, felice di sapere che, insieme agli altri tipi di vocazione, può rendere testimonianza dell’enorme mistero in cui è immersa la creazione! Noi monache di vita contemplativa cerchiamo di rendere visibile al mondo, alla Chiesa, il mistero ineffabile della relazione di Gesù col Padre. Sappiamo infatti che sceglieva albe o tramonti in luoghi solitari per dialogare con chi muoveva con amore il suo cuore e la sua vita. Solo chi non ha percezione dell’immensità del mistero di Dio può ridurlo a poche espressioni coincidenti con alcuni carismi o scelte di vita!
Qual è secondo te la “parte specifica” della vita claustrale nella Chiesa? Quale apporto specifico siete nella Chiesa di oggi? E per la società italiana, che sembra non avere più gli strumenti per capire l’importanza della preghiera?
Naturalmente il papa parla di qualcosa che le nostre fondatrici avevano già elaborato. Infatti santa Chiara nel 1243 diceva a santa Agnese di Praga: “Ti stimo collaboratrice di Dio stesso e sostegno delle membra deboli e vacillanti del suo ineffabile Corpo” (S. Chiara d’Assisi). L’esperienza monastica, avvicinandoci sempre più al centro della nostra fede, il Signore crocifisso e risorto, ci colloca nella parte più profonda del mondo e della Chiesa. Le immagini più comuni parlano di cuore, di radici, non tanto per il loro nascondimento ma per l’energia, che pur piccole sprigionano, trasmettendo vita a qualcosa di più grande di loro. Dico sempre, quando mi chiedono una testimonianza, che non ho mai incontrato tanta gente come da quando sto in monastero! Come Gesù sulla croce attira tutti a sé nell’apparente immobilità del suo corpo ma nella massima espansione del suo amore, così un monastero ha la capacità di attrazione grande su tanti dentro e fuori la Chiesa! A volte non c’è bisogno di tante parole, perché gli uomini e le donne, anche del nostro tempo, portano dentro tante domande che trovano requie in un posto come un monastero (anche nel cuore di una città briosa come la nostra) e nell’incontro con qualcuna di noi.
È vero che tanti monasteri di antica tradizione stanno chiudendo, ma sappiamo anche che questa nostra vita contemplativa stabile sta rinascendo sotto altre forme più moderne. Forme capaci di rispondere nella sobrietà di vita, edifici, strutture legislative, alla sete del totalmente Altro che abita ancora il cuore di giovani della nostra società, che cercano di incarnare nella loro esperienza religiosa i frammenti di bellezza che il Signore sparge ancora a piene mani anche su ogni striscia di asfalto delle nostre città. E posso testimoniare che il cuore spinge tanti a cercare le domande giuste per avere una vita felice. Per chi ha studiato un po’ di storia questo tempo non è diverso da altri; infatti, tenebre e luce hanno sempre coabitato, si è sempre dovuto scegliere in quale cono posizionarsi e da lì guardare il mondo.
Avverti una sorta di sinergia che vi coinvolge completamente nella Chiesa?
Partendo dal mio piccolo fino alla dimensione più grande della intera famiglia della vita contemplativa monastica, posso dire che, se apparentemente la Chiesa come istituzione oscilla, nei nostri confronti, tra un senso paternalistico di protezione e una richiesta enorme di essere interpreti privilegiate dei segni di tempi, tuttavia non riesce a fare a meno di noi. E se nei discorsi ufficiali siamo menzionate in pochissime occasioni, posso assicurare che alla fonte della nostra vita e preghiera vengono ad abbeverarsi tutti: dal pastore della diocesi all’ultimo prete di periferia, dal generale dell’ordine al padre missionario di uno sperduto villaggio della Thailandia! Ecco, voglio dire che ogni persona che realmente fa un’esperienza spirituale di qualsiasi natura e grado ha un monastero o una monaca di riferimento. Credo che non ci sia modo migliore per essere parte del corpo ineffabile della Chiesa di cui parlava santa Chiara!
Come ti auguri che venga incarnato dal popolo di Dio il quarto principio di EG?
A fine ottobre qui a Napoli c’è stato un incontro tra tutte le forze ecclesiali della diocesi sul tema: “Una chiesa fraterna capace di amore. L’Evangelii gaudium di papa Francesco” e la relazione iniziale è stata affidata a fratel Enzo Bianchi di Bose. A proposito di quanto chiedi mi pare illuminante quello che lui ha detto della priorità dell’appartenenza alla Chiesa madre rispetto ad una delle sue parti: “Proprio per questo la parrocchia, di cui si parla al paragrafo 28, è il luogo che raccoglie i chiamati dal Signore, per farne degli evangelizzatori. Papa Francesco privilegia la forma parrocchiale della vita ecclesiale, perché nella parrocchia le persone possono unire la loro vita quotidiana e familiare con la vita ecclesiale; perché nella parrocchia la chiesa incarna la sua vera immagine di uomini e donne che non si sono scelti, che non sono selezionati in base a qualche aspetto del cristianesimo; perché nella parrocchia si può vivere l’esperienza ecclesiale, dal battesimo alla morte, in un tessuto ecclesiale magari povero ma persistente. Collocata “presso la casa” (pará-oikía), la parrocchia vive la prossimità con gli uomini e le donne senza esenzioni e senza spirito elitario o tantomeno settario, e per questo è soggetto dell’annuncio nel quotidiano e duro mestiere umano del vivere. E i movimenti ecclesiali, le nuove comunità o altre aggregazioni non siano mai tentati dall’autoreferenzialità, dal restare distanti dalla realtà viva e ricca della parrocchia, incamminandosi su sentieri in cui si rischia di creare la dinamica della chiesa parallela (cf. EG 29). Lo ripeto: non ci sono soggetti privilegiati dell’evangelizzazione nella Chiesa ma ogni battezzato, con i propri doni e in misura del grado di fede di ricevuta, può essere evangelizzatore nell’uguale e comune dignità dei battezzati”.
sr. Naike Monique Borgo