Una madre racconta la sua vita speciale insieme alla figlia disabile cognitiva
È davvero bella quell’impastatrice che ho visto nel grande magazzino di elettrodomestici:
è da tempo che sto cercando il momento migliore per prenderla… chissà che abbassino un po’ i prezzi!
D’altronde, la domanda di questi utensili è alta: in questo tempo di distanziamento e di pandemia, molte persone hanno regalato o si sono regalate delle cose utili. E l’impastatrice lo è!
Devo impastare con Selene: è una delle cose che la rende felice, tranquilla, che ama fare con me. A 21 anni, la sua lieve disabilità cognitiva la porta a vivere tutto come se fosse una bambina. E la relazione più importante, per lei, è con me: con la sua mamma.
Il papà non ha retto la nostra vita familiare e ci ha lasciate dopo qualche anno dalla sua nascita: ha lasciato anche Marta, mia figlia più grande, che è una grande gioia e ora anche un grande sostegno per me. Ma deve fare la sua vita: la laurea, il fidanzato, i progetti di futuro non possono essere legati soltanto alla “sorellina”.
Ci sono io: con il mio lavoro, con tutti gli aiuti che anche la mia famiglia di origine mi dà e mi ha dato.
Ma per Selene, sono sempre e solo io la persona di riferimento. È così per tanti ragazzi e ragazze con disabilità: il loro affetto, le loro richieste, sono soprattutto verso i genitori. La rete che abbiamo costituito attorno ai nostri figli, la cooperativa di inserimento lavorativo, le ore trascorse con educatori ed educatrici, da circa un anno si è come fossilizzata: tutti a casa, per combattere il contagio.
E allora, tutto sulle mie spalle, che fanno anche le bizze e mi danno qualche problema fisico.
Che sia psicosomatico? Non lo so, ma mi fanno male.
Non posso però farlo pesare a Selene: per lei solo baci, affetto, sguardi dolci, contatto fisico che non deve mancare. Perché ha tanta paura, soprattutto in questo periodo così lungo. Le sue sicurezze sono venute a mancare: l’orario del pulmino che la veniva a prendere, il suo impegno in cooperativa, il pranzo con gli altri, le attività con gli educatori… tutto sospeso. Senza capirne il perché. Per lei è un abbandono: non ci sono altri motivi. E allora mamma, mamma, mamma.
A volte mi sembra di soffocare: ma cerco di non darlo a vedere, altrimenti lei percepisce la mia tensione e si impaurisce ancor di più. Allora si innescano i miei sensi di colpa, ed entro in un circuito vizioso dal quale devo subito uscire per non rendermi (e renderle) impossibile la vita. Non mi faccio più le tante domande che mi facevo un tempo: perché lei? Perché a me, a noi? Quale sarà il suo futuro, dopo di me? Ce la faremo? Sono domande che non hanno risposta se non in una cura d’amore: e lei è la prima a darla a me e a sua sorella. Noi rispondiamo al suo amore, e lo facciamo crescere: per lei, per noi, per tutti coloro che ci circondano.
Un amore fragile, una cura fragile: ma che c’è. E che consegno a Dio, dovunque lui sia. Lo penso spesso vicino a me, a noi, che magari sorride dei discorsi semplici che facciamo, e poi condivide con me e Marta i pensieri più complessi sulla vita e sul futuro. Andiamo avanti, cercando di vivere serenamente il tempo che ci è dato su questa terra. In questo anno di pandemia non possiamo nasconderci di essere più sole di prima: e io non nascondo che vorrei avere più rete di persone intorno a noi, perché la circolarità aiuta la serenità. L’altro giorno ho dovuto portare Selene a fare il tampone per il Covid: c’erano anche altri genitori di ragazzi con disabilità, e molti di loro erano anziani. Ho pensato e ho detto ad alcuni che dobbiamo davvero riunirci di più, anche con questi sistemi di connessione a distanza che non amiamo molto e che non sappiamo usare bene, perché è importante che facciamo sentire la nostra voce per il bene di questi nostri figli: non possiamo essere da soli ad affrontare questo tempo!
Chissà, forse riesco a far crescere questa rete di solidarietà relazionale: riproporremo ai servizi sociali le nostre istanze e cercheremo ancora di tendere la mano perché sia presa, perché possiamo essere accompagnati e accompagnare. Non è facile, ma ci proviamo. Ne parlavo anche con la mamma di quella bambina straniera che in questo anno ha invece fatto una esperienza unica: è riuscita ad inserire sua figlia alla scuola dell’infanzia, e questa bimba affetta da una malformazione genetica, che viene nutrita con la Peg, che non si sa se riconosca o meno le persone, che non camminerà mai e mai parlerà, sorride e vuol come far sentire la sua felicità quando si pronunciano i nomi dei bambini con cui è in classe. Incredibile! Dobbiamo davvero stare unite e uniti, far crescere la solidarietà tra noi e attorno a noi. Solo così possiamo continuare a vivere.
E l’impastatrice? Riuscirò a comprarla. Selene vuol sempre fare i biscotti, provare a fare il pane… Se le mie spalle non reggono, mi trovo un aiuto.
Impasteremo i nostri giorni, insieme come sempre, e faremo qualcosa di buono e di dolce per chi lo vorrà assaggiare. Facciamo della nostra vita fragile un piccolo e gustoso dono di bontà.
sr Federica Cacciavillani