Dal sinodo dell’Amazzonia un insegnamento per tutte le chiese
I popoli che abitano territori di antica tradizione cristiana – e che tali sono rimasti nei secoli – hanno spesso la presunzione, per lo più inconscia, di pensare che la propria cultura sia cristiana, o comunque frutto della fede cristiana, radicata in essa anche quando la misconosce (si pensi al dibattito sulle radici cristiane dell’Europa) e di pensare contestualmente che in altri paesi – quelli che, pur evangelizzati anticamente, hanno perduto la maggioranza cristiana (come l’Africa del nord o l’Asia minore) o quelli che hanno ricevuto il Vangelo da qualche secolo – la cultura sia qualcosa da correggere e modificare, importando la nostra che sarebbe sorta dal Vangelo. In questo tipo di prospettive, che comportano una vera e propria sacralizzazione di una cultura, si nasconde più di una minaccia: la prima è quella colonialista, la seconda è quella di non saper più vivere nel contesto culturale che continuamente si ridefinisce.
Se, infatti, si lega il Vangelo ad una realizzazione culturale, si tenderà ad imporla a popoli altri dal nostro, con una mentalità colonialista, che si fonda sulla convinzione di essere superiori ai popoli che si incontrano. Le conseguenze disastrose di questo atteggiamento sono note dalla storia: violenze, imposizioni, devastazioni, perdita di risorse e di possibilità (per i popoli colonizzati, ma anche per quelli che li “conquistano”). Altrettanto pericolosa però è l’altra minaccia che la sacralizzazione di una cultura porta con sé, ovvero la convinzione di trovarsi fuori posto, perché il Vangelo non sarebbe più efficace, in mezzo al popolo in cui si vive, solo perché questo modifica i propri modelli culturali. Basti pensare alla sensazione di assedio che alcuni credenti percepiscono per la mancata possibilità di fare presepi o rappresentazioni a carattere confessionale nelle scuole statali, come se si venisse privati della possibilità di professare la fede, invece di essere messi semplicemente di fronte al dato di fatto che i segni di fede non vengono più compresi come tradizionali, ma come atti confessionali. Questo potrebbe essere persino un vantaggio, perché essi vengono resi puro folklore al di fuori del contesto confessionale, per cui la loro sospensione, se non si dà la possibilità di spiegarli e annunciare, può persino essere considerata un gesto di rispetto.
Nessuna cultura in realtà può essere sacralizzata, perché ogni cultura sorge da un frammento di umanità che si relaziona, pensa, vive, e quindi esprime una bellezza propria da onorare e allo stesso tempo è sotto il segno della fatica e della contraddizione che gli esseri umani sperimentano. Il Vangelo poi – richiamando qui l’immagine bellissima di Ad gentes 22 – è come un seme che è capace di dare una pianta diversa in ogni terreno in cui viene gettato, perché pur essendo sempre uguale si nutre delle ricchezze dei popoli e delle terre che incontra: le culture fanno fiorire il Vangelo sempre in modo nuovo e questa novità si offre in dono alla Chiesa intera perché si arricchisca di doni che ancora non aveva: solo in questo intreccio di doni sempre nuovi la Chiesa è la catholica (cfr. LG 13).
Il sinodo dell’Amazzonia è stato un luogo in cui questa ricchezza delle culture – e quindi la condanna di ogni mentalità colonialista – è stata ribadita con forza, anche perché la terra amazzonica è ricca di popoli e biodiversità, in un connubio di esseri umani, animali e piante, che fa percepire con chiarezza un pullulare di vitalità fatto di diversità irriducibili ad un unico modello. E la Chiesa che vive in queste terre sceglie di non imporre ai diversi popoli che incontra una cultura altra, venuta da altre terre e da altri popoli, e rinuncia così allo stile colonialista dei conquistatori. Va invece in mezzo ai popoli che vivono queste terre per imparare da loro, per ascoltare, per favorire la nascita di una Chiesa autoctona, amazzonica, unica nel suo genere ed estremamente preziosa perché i popoli indigeni hanno uno stile di vita che può aiutare il mondo intero a invertire un percorso autodistruttivo e che prevede lo sfruttamento indiscriminato del pianeta con la sua distruzione (cui si accompagna ineluttabilmente quella umana).
Non si tratta più propriamente di inculturazione – parola che pure ricorre nel documento finale del sinodo –, perché comunque ha il sapore di una traduzione di una cultura in un’altra lasciando alla prima una sorta di matrice da cui ricavare le altre, ma di interculturalità, ovvero di uno scambio fra culture diverse. Si incontrano missionari e indigeni e nell’annuncio del Vangelo si offrono reciprocamente doni che costituiscono poi una realtà ecclesiale mai vista, perché l’annuncio offerto è fatto proprio in modo unico da coloro che lo accolgono e fa sorgere una realtà ecclesiale nuova, i cui primi beneficiari sono proprio coloro che incontrano i popoli che evangelizzano. Si incontrano anche popoli diversi fra di loro, che intrecciano modalità di vivere e di sentire, uscendone arricchiti e allo stesso tempo confermati nel proprio vivere. L’interculturalità, infatti, presuppone un atteggiamento di rispetto e contemplazione, per cui l’altro non appare inferiore, ma alla pari; e con lui si intreccia un dialogo in cui si offre ciò che è proprio, ma anche si è disposti ad ascoltare e accogliere ciò che è dell’altro: quando si incontra realmente qualcuno si è disposti ad esserne trasformati. Dal punto di vista della Chiesa, ciò può accadere perché sappiamo bene che Dio ama tutti gli uomini e si fa presente presso tutti i popoli stringendo alleanze misteriose e preziose che il Vangelo poi porta a compimento. Ogni annunciatore è così, anzitutto, in contemplazione di ciò che Dio ha operato con la porzione di umanità che ora lui incontra.
In forza di questa comprensione delle culture, le popolazioni indigene non possono che essere viste come protagoniste delle loro Chiese e, inoltre, sono chiamate ad offrirci, con il loro vivere integrato nella natura, così spontaneamente comunitario e lontano da ogni clericalismo, una realizzazione di Chiesa che noi fatichiamo ad avere, attaccati a schemi culturali ormai passati o per nulla evangelici e pervasi da nostalgie di bei tempi mai esistiti. Potremmo invece rischiare l’ascolto e l’incontro di queste popolazioni, navigare i loro fiumi, se non fisicamente spiritualmente, e imparare uno stile di vita rispettoso di tutti gli esseri viventi, capace di condividere la vita e lontano da una realizzazione di Chiesa ancora così pesantemente gerarchica da impedirci fraternità e annuncio.
Si tratta di muoversi e convertirsi, senza ulteriori indugi.
Simona Segoloni