La realtà e la sfida dell’incarnazione
Il Vangelo di Giovanni è un Vangelo “diverso”. Gli altri tre hanno addirittura un nome che li accomuna, sinottici, simili tra loro, mentre quello di Giovanni è a parte, sfugge agli schemi e nei primi secoli fu addirittura tacciato – da alcune parti della Chiesa – di “eresia”. In parte, questo può essere dovuto al fatto che Giovanni, nel suo Vangelo, invita molto spesso chi legge il suo testo a eliminare ogni immagine di Dio che possa essersi costruito nella mente, che abbia assorbito dalla propria comunità o dalle leggi religiose del proprio tempo, se questa immagine non rispecchia l’insegnamento, la vita di Gesù di Nazareth e soprattutto le azioni da lui compiute, che sono sempre state in favore della pienezza di vita e della felicità di ogni essere umano.
Giovanni scrive, o fa scrivere, il Vangelo alla fine della sua vita quando sono evidenti, per i primi cristiani, la violenza della persecuzione nei confronti della Chiesa nascente, ma anche la debolezza e, nello stesso tempo, l’inarrestabile forza della realtà dell’annuncio di Cristo e della testimonianza di vita dei credenti in forza della loro fede nella “presenza” di Dio nella storia.
Che la vita di ciascuno e la vita del mondo siano “abitate” è affermato con chiarezza già nel Prologo del Vangelo, sintesi dell’intero annuncio di Giovanni ripreso ed approfondito poi nei capitoli seguenti, quando al versetto 14 si legge: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
Fin dall’inizio del brano Giovanni scrive che già “in principio”, nella Parola creatrice di Dio, era presente il progetto di comunicare vita all’umanità, e che il compimento di questo progetto nella storia è Gesù: la Parola che si fa “carne”. Il testo di Giovanni non dice che il Verbo si fece “uomo”, ma usa il termine greco che indica la debolezza, la fragilità dell’essere umano: è la carne con i suoi limiti, la sua caducità e i suoi bisogni, quella che Gesù assume. L’incarnazione non è semplice vicinanza all’umano, ma radicale immedesimazione di Dio nella nostra limitata e mortale realtà umana. Gesù si è fatto carne e in quanto tale ha sperimentato la gioia, ma anche la pesantezza del quotidiano, la forza degli affetti, come l’incomprensione della gente, la solitudine, il tradimento degli amici, il dolore, l’angoscia e, infine, la morte. Se nei limiti di questa carne è entrato Dio, allora anche i nostri quotidiani limiti possono acquistare un senso, possono diventare luogo in cui vivere la rivelazione di Dio, la condizione di comunione con il Padre e una possibilità di vita eterna.
Sulla teologia dell’incarnazione c’è ancora tanto da approfondire e soprattutto da assumere, a partire da una domanda che diventa fondamentale: se nell’incarnazione c’è tutta la debolezza di Dio – pensiamo a quel bambino che contempliamo quasi solo a Natale, un Dio che si incarna nella parte più debole e marginale dell’umanità – siamo disposti ad accogliere un Dio così? A diventare testimoni, nella nostra realtà, di questa impotenza? Parlando di incarnazione non stiamo, infatti, affermando che l’uomo si “divinizza”, ma che crediamo in un Dio che ha rinunciato, che si è “spogliato” della sua condizione divina e si è identificato con l’umanità. Ed è solo nell’umano, nel rapporto che abbiamo con gli esseri umani che incontriamo, soprattutto quelli più deboli, più emarginati o considerati scarti senza valore, che possiamo incontrare Dio.
Giovanni prosegue e scrive che quel Dio che si è fatto carne è venuto a “mettere la sua tenda” – letteralmente ad “attendarsi” – in noi. Nell’Antico Testamento spesso si parla della “tenda dell’incontro tra Dio e Israele” e con questi termini si indicava inizialmente la tenda reale che richiamava alla presenza di Dio, il quale guidava Israele nel suo peregrinare durante gli anni di cammino nel deserto raccontati nel libro dell’Esodo, e, dopo aver conquistato la Terra Promessa e instaurato il regno, il tempio di Gerusalemme.
Al santuario del tempio, però, non tutti avevano accesso: solo pochi “eletti”, con numerose regole e leggi da rispettare, potevano avere il diritto di entrare. Sempre più quel luogo, da memoria di una tenda che camminava con gli uomini e le donne del popolo, era diventato recinto riservato alla divinità, spazio separato, delimitato, sacro e inviolabile. Il Dio di Giovanni fugge da questo spazio, rifiuta la separazione e l’inviolabilità e chiede invece di “stare” nelle nostre vite, di camminare sulle nostre strade come Gesù – Parola fatta carne – che, lungo le strade del suo tempo, incontrava e sanava le persone proprio perché aveva messo la sua tenda nella realtà della storia degli esseri umani.
“Celebrare la legge dell’incarnazione è proclamare che la parola divina diventa udibile sulla terra solo quando lo Spirito la rende parola di uomini; è ripetere che l’amore di Dio diventa efficace solo quando lo Spirito di Cristo lo traduce in gesti di amore umano; è testimoniare che la misericordia del Padre si esprime nella storia solo quando nello Spirito di Cristo si fa perdono di creature; è mostrare che la Vita diventa dono per gli uomini quando lo Spirito di Dio rende carne la sua Parola” (C. Molari).
Al versetto 17 del Prologo, Giovanni scrive: “Perché la Legge – cioè l’insieme dei principi, qualcosa di esterno – fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Cristo”. Più avanti, al capitolo 14, Gesù per rassicurare i discepoli prima della sua morte, affermerà: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (14,23).
Si tratta, per i discepoli di allora e per noi oggi, dell’annuncio di una relazione nuova con Dio, non più basata sull’osservanza dei princìpi e della Legge, ma sulla disponibilità ad accogliere l’amore di Dio; non più legata alla conquista di meriti, ma vissuta alla luce dei bisogni di ciascuno. Il credente non è colui che obbedisce osservando delle leggi, ma ogni uomo e donna che vivendo la novità di una Parola incarnata praticano un amore misericordioso simile all’amore di Dio, per “realizzare opere di giustizia e carità nelle quali tale Parola sia feconda” (EG 233).
“Viene un’ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità” (Gv 4,23) dirà Gesù alla Samaritana, superando la domanda se era più “giusto” adorare Dio nel tempio di Gerusalemme o in quello dei samaritani sul monte Garizim; non c’è più un luogo sacro dove andare per incontrare Dio: ogni persona è “santuario” di Dio nella realtà in cui è chiamata a vivere, nelle relazioni con gli altri esseri umani, diventando pienezza di umanità, tempo e carne che Dio abita.
Donatella Mottin