Un popolo inclusivo anche nel modo di dire Dio
È una follia odiare tutte le rose
perché una spina ti ha punto.
(A. de Saint-Exupéry)
Questo quarto principio – “il tutto è superiore alla parte” – non è facile da capire, perché ha in sé qualcosa di dissonante, dipendente dal fatto che la storia ci spinge a diffidare di tutto ciò che rimanda alla totalità. Impossibile non richiamare alla memoria le tragedie dei vari totalitarismi e l’arroganza di certe filosofie del sistema, dove le tante differenze che costituiscono la trama del reale sono state assorbite in logiche violente, lasciando l’impressione che per avere coerenza teorica e pratica qualcuno o qualcosa deve per forza essere sacrificato. Anche questo principio di papa Francesco, come gli altri, va tuttavia pensato come criterio di orientamento che non si dà come formula, ma che prevede dei passaggi impegnativi e articolati.
Il tutto che viene scoperto, nominato e vissuto come superiore alla parte, infatti, non è già dato, ma è faticosamente preparato da un’elaborazione della parzialità di ogni soggetto, di ogni prospettiva, di ogni evento, di ogni sogno. È un “tutto inclusivo” che nasce gradualmente, a forza di riconoscersi singolari, finiti, imperfetti e incompiuti. Questa lunga e complessa preparazione fa saltare la logica quantitativa: il tutto non è una sommatoria delle parti, ma è frutto di una condivisione complessa, di scambi continui, di recupero degli esclusi e di rinegoziazione dei confini. Il problema è che sono ancora troppe le realtà parziali e singolari che si presentano come totalità: il denaro che sembra assicurare il senso della vita, il lavoro (quando c’è) che assorbe ogni aspetto dell’esistenza, teorie che vogliono spiegare ogni cosa, verità che si presentano come valide sempre in ogni luogo e per chiunque.
La questione tocca anche la Chiesa come popolo di Dio, le narrazioni teologiche e le pratiche liturgiche: esse possono presentarsi come “un tutto” solo se rispettano le diverse parti e le varie appartenenze, se sono attraversate nel nome del Vangelo dalla fatica dello scambio e segnate da una tensione continua e vigilata all’inclusività. A questo proposito, è da tempo che le donne domandano agli uomini, che tradizionalmente prendono la parola sull’esperienza umana alla luce della rivelazione divina, di nominarsi singolarmente e di riconoscere la propria parzialità: che dicano da dove prendono la parola e verso dove la vorrebbero lanciare, che esprimano il loro radicamento in un corpo maschile, che si accorgano di non poter rappresentare la mappa del senso nella sua completezza, che siano disposti a rischiare per restituire movimento vitale a un ordine simbolico che altrimenti rischia di rappresentare solo se stesso.
A troppi, però, questa richiesta risulta eccentrica e inassumibile. Si patisce una certa sofferenza a constatare che questo scambio è ancora tanto faticoso, come se si trattasse di un capriccio dovuto al desiderio di far entrare nell’accademia teologica discorsi rapsodici, evocativi, sentimentali o politici. Alcuni, forse quelli più coinvolti nel reale condiviso, hanno fortunatamente accettato la sfida, aprendo lo spazio per un’altra storia, un’altra epistemologia, un’altra modalità critica, altre pratiche e altri vissuti. La via è lunga e bisogna insistere, nella consapevolezza che non c’è altro modo per far emergere ciò che è andato perduto se non dare la parola ai soggetti esclusi, restituendo voce alla loro esperienza del divino. È solo la voce dell’altra a far sperimentare all’uno di avere una storia, di essere dentro una trama frammentata e a volte incomponibile, di non potersi prendere da solo la responsabilità del senso.
Per fare un esempio della posta in gioco, si può pensare all’immaginario con cui viene detto e rappresentato Dio. La prevalenza delle metafore maschili è il frutto di un processo ermeneutico e storico che non può essere sganciato dal fatto che, praticamente, ad aver preso la parola in campo teologico sono stati soprattutto uomini. Per trovare un nuovo equilibrio, le teologhe sono impegnate a dissotterrare le metafore bibliche femminili del volto di Dio. È importante sottolineare che questo lavoro non mira a una sovrascrittura: non si vuole sostituire un Dio maschile con un Dio femminile. Sappiamo tutti che il Dio trino non ha un sesso, e che il Figlio si è incarnato in un bambino e non in una bambina. Non c’è nulla di male, tra l’altro, in un immaginario maschile del divino. I problemi sorgono quando non se ne riconosce la provenienza e si tagliano i debiti con le radici esperienziali e corporee dei simboli. In questo misconoscimento compare allora la totalità che assorbe ogni alterità, o che al massimo la nomina come eccentrica e dunque non integrabile. Tuttavia solo una circolazione plurale di significanti, maschili e femminili, restituisce a Dio la propria trascendenza e impedisce all’umanità di appropriarsene simbolicamente. Se non si aprono processi reali e concreti in cui la parola femminile possa risuonare anche là dove non è ripetizione del già-detto, è dunque tutto un mondo a restare nell’ombra: la fede della Marta giovannea, l’apostolicità di Maria Maddalena, la dimensione sapienziale della Scrittura e tutto ciò che in qualche modo associa donne e sacro. Allora quel “tutto” che è superiore alla parte sarà un imbroglio. Resterà una parte travestita da “tutto”.
Questa situazione squilibrata non ricade negativamente solo sulle donne, ma coinvolge anche gli uomini, che hanno sopportato in solitudine il peso della narrazione teologica. In uno spazio distorto, infatti, la legge simbolica della “parte per il tutto” si fa gravemente obbligante, spingendo chi vuole parlare quella lingua a una distanza di sicurezza da tutto ciò che sa di parzialità. Agli uomini, dunque, è toccato stare alla larga da simboli, temi e situazioni legati al corpo, alle relazioni di dipendenza, agli affetti, ai contesti concreti. Per alcuni di loro, questi limiti ora non risuonano più come garanzia di oggettività, ma come fuga dal reale.
Il “tutto” a cui si tende in EG, allora, non è una perfezione da contemplare, ma si presenta come materia viva tenuta insieme da relazioni effettive tra uomini e donne che mirano al bene comune. Il bene non può che essere cercato insieme e condiviso: “il soggetto storico di questo processo, e? la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’e?lite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo” (EG 239).
Come Chiesa, dunque, siamo un popolo di Dio che eccede l’insieme di tutti i battezzati. Questo valore aggiunto ha una fisionomia specifica, che dipende dal grado di inclusività della comunità, dalla sua capacità di essere trasparente, dalla sua competenza verso le differenze. Solo una comunità che non discrimina nessuno può essere “un tutto”.
Questo principio è dunque strettamente intrecciato agli altri tre: perché si realizzi occorre che non ci siano soggetti che tendono a occupare tutto lo spazio, che non ci si paralizzi nei conflitti e che si dia ascolto effettivo ai movimenti della realtà.
Lucia Vantini