Il tempo è superiore allo spazio

22
Apr

Orizzonti aperti per avviare processi

È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Insegnami l’arte dei piccoli passi. (A. De Saint-Exupéry)

Il tempo è superiore allo spazio. È questo il primo dei quattro cosiddetti “principi” attorno ai quali è intessuta l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, che sembrano consegnati come forme di resistenza alla complessità della vita, una complessità a volte preoccupante e angosciante, che il Vangelo ha però promesso di raccogliere e di salvare, suscitando nelle pieghe delle inquietudini una tensione continua verso un Regno già iniziato, anche se ancora incompiuto.

Deve trattarsi di un pensiero importante per papa Francesco, se lo si ritrova già in Lumen Fidei, l’enciclica che in qualche modo ha segnato il passaggio al suo pontificato. Chiaramente in gran parte avviata da papa Ratzinger prima delle sue dimissioni, LF anticipa quello che sarà il ministero di Bergoglio anche attraverso il nostro principio, citato assieme a quest’esortazione: “Non facciamoci rubare la speranza” (LF 57).

In questo principio è racchiusa una sapienza vicina, profondamente intrecciata con ciò che viviamo: la nostra esperienza, infatti, sta sempre dentro coordinate spazio-temporali, dato che accade in certi luoghi ed è fatta di un susseguirsi di momenti. È in nome di questa familiarità che all’inizio di questo discorso abbiamo posto alcune parole de Il piccolo principe: anche lui che ha viaggiato di pianeta in pianeta sapeva che lo spazio non è tutto, e aveva imparato sulla propria pelle che il tempo è qualcosa di essenziale, perché rende speciali gli incontri e i passaggi della vita.

Ciò che non è di immediata comprensione, però, è l’asimmetria nominata qui: di queste coordinate che individuano gli eventi che ci capitano e ci segnano, una è più importante dell’altra, il tempo. Emerge dunque una tensione tra spazio e tempo, che si può penetrare in modo corretto se si leggono le due dimensioni come diversi atteggiamenti che possiamo assumere di fronte alla realtà: lo spazio è altro nome del potere che “cristallizza i processi” mentre il tempo “proietta verso il futuro” e dunque è altro nome per la speranza (LF 57).

Sbilanciarsi sul versante spaziale significa considerare e trattare tutto come un oggetto da esplorare, conquistare, consumare, dominare, senza vera attenzione al domani. Secondo papa Francesco è questo l’atteggiamento a volte assunto dai genitori, che vorrebbero figli corrispondenti alle attese – somiglianti ma meglio riusciti di loro, in modo che il rispecchiamento sia particolarmente gratificante – e che finiscono ossessivamente per controllare e soffocare ogni passaggio della loro sperimentale esistenza (Amoris Laetitia 261). È anche l’atteggiamento di chi si fa indifferente al mondo, piegato ai modelli consumisti e ingiusti di sempre, ciecamente ubbidiente a poteri autoreferenziali, sordo alle grida dei poveri, alle urgenze ecologiche, alle domande di pace e di giustizia, privo del coraggio di pensare in grande, di abitare il mondo non come un giardino privato ma come una casa comune (Laudato si’). È inoltre l’atteggiamento di chi pensa di risolvere discussioni dottrinali, morali o pastorali “con interventi del magistero” (Amoris Laetitia 3), comprimendo la vita delle persone attraverso ingenui e inadeguati schemi di comodo. È in fondo l’atteggiamento di tutti noi quando vogliamo tutto e subito, quando smaniamo di lasciare la nostra firma personale su ogni dono ricevuto, quando con lo sguardo non sappiamo andare oltre il recinto di casa nostra e alziamo muri per ripararci dagli occhi degli altri. Simone Weil era convinta che questa chiusura ci viene naturale: in noi c’è la tendenza a comportarci come un gas, che occupa tutto lo spazio a disposizione. Questo spazio, diceva, lo togliamo a Dio, al quale non resta che la lentezza del tempo, tempo dell’attesa, tempo di mendicare il nostro amore, tempo per aprire varchi trasformativi vincendo a poco a poco le nostre piccole e grandi resistenze.

Chi prende sul serio il tempo, invece, non subisce il fascino del potere: non si preoccupa dei ruoli, non giudica a partire dalle posizioni sociali, non si sofferma su ciò che ha e non è ossessionato da ciò che gli manca. Gli interessa piuttosto capire chi sta diventando, verso dove sta camminando, come e con chi. Di fronte al reale, inoltre, ha imparato a indietreggiare, a lasciar essere, a farsi sorprendere, in una forma di attesa che tuttavia agisce – a volte anche in modo molto deciso – cercando di creare le condizioni perché nuovi e positivi processi possano avviarsi, nel nome di una Parola che ha promesso una custodia del futuro.

In questa immersione nel tempo che si accompagna a una rinuncia degli spazi di potere, emerge una coraggiosa e arrischiata apertura al cambiamento. Chi non trattiene lo spazio per sé apre infatti un tempo diverso, dalle trasformazioni impensabili. Le trasformazioni creative non sono mai opera di uno solo: sono azioni condivise, che “generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti” (EG 224).

Ragionare in termini spaziali, dunque, è situarsi in un piano statico, già dato e nominato, nei confronti del quale l’unico gesto possibile è quello della spartizione. Ragionare in termini temporali, invece, è stare nello squilibrio del processo, aperti all’imprevisto, disposti al recupero di ciò che è andato perduto e che ora manca, implicati in un presente da vivere con gli occhi aperti, spinti da sogni che ancora troppi non osano fare.

C’è l’aurora di una nuova comunità ecclesiale in queste parole, una comunità inclusiva che sono ancora soprattutto le donne a desiderare esplicitamente. Non è un caso che proprio in questo orizzonte di spazi non saturati e di apertura ai processi le suore dell’UISG (Unione Internazionale delle Superiore Generali), il 12 maggio scorso, abbiano potuto far risuonare una domanda sul diaconato femminile, a cui sono seguiti lavori di ricerca teologici e scambi ecclesiali. Nel testo Donne diacono?, le teologhe Cristina Simonelli e Moira Scimmi hanno fatto il punto della situazione, rilanciando con speranza una domanda importante sulle donne nella Chiesa: “In quale forma saranno presenti nel futuro, anche prossimo?”.

Sulla scorta di questo interrogativo tuttora sospeso, possiamo dire che il principio in questione parla più di un linguaggio: esso risuona come disapprovazione e rimprovero per chi ostacola i processi ecclesiali inclusivi, mentre si fa discorso di incoraggiamento per chi spera e si impegna in trasformazioni comunitarie ospitali, nonostante tardino a realizzarsi. La fecondità dei processi dipende dalla condivisione di quest’affidamento in un tempo che unisce, un tempo che non può essere posseduto, ma di cui ci si deve riappropriare. Riprendiamoci allora il tempo per reagire agli spazi soffocanti e per condividere spazi accoglienti, facendo memoria del Vangelo, promessa di salvezza per tutti e per tutte.

Lucia Vantini

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