Intervista a Gemma Calabresi, instancabile tessitrice della vita che rinasce dal lungo cammino del perdono
Gemma Calabresi Milite è un’instancabile tessitrice di vita, che testimonia con la sua la possibilità di riparare sempre gli strappi subiti, anche i più laceranti. Nata nella numerosa famiglia Capra, Gemma ha respirato fin dall’infanzia i valori cristiani, ma lei stessa dice “credevo per tradizione, perché mi era stato detto così, ma non per vera convinzione”. La vita le riserverà un grande amore con il commissario Luigi Calabresi, ma anche un grande dolore quando il suo Gigi verrà assassinato il 17 maggio 1972 a Milano.
“Si può vivere una vita d’amore anche dopo un dolore lacerante. Si può credere negli esseri umani anche dopo averne conosciuto la meschinità. Si può trovare la forza di cambiare prospettiva, allargare il cuore, sospendere il giudizio”, scrive nel libro La crepa e la luce pubblicato da Mondadori in occasione dei cinquant’anni anni dalla morte del commissario Calabresi. La voce calda e serena di questa donna raccontano una postura interiore importante, cesellata giorno dopo giorno da un cammino scelto e assunto con fatica a venticinque anni con due figli per mano e uno in grembo, ma che l’ha resa una persona interiormente libera.
Signora Gemma, la sua vita è un percorso di perdono?
Il discorso del perdono mi ha seguita un po’ in tutta la vita. Non è stata una cosa immediata. Per me il perdono è stato un cammino molto lungo che mi ha accompagnato, però è stato un desiderio: ad un certo punto io ho capito che il perdono lo dai non con raziocinio, non con l’intelligenza, ma solo col cuore e come dice la parola “perdono” è un dono, quindi il dono lo dai con amore. Non puoi prenderti in giro, ma lo devi volere. È una scelta che tu fai. Quando ho capito questo, ho deciso che avrei perdonato e che sarebbe stata la scelta della mia vita, indipendentemente dal fatto che mi venisse chiesto, perché sono due cose diverse: quando tu vuoi donare questo perdono, lo fai col cuore e quindi è un dono senza pretendere niente in cambio.
Lei racconta il perdono come qualcosa di possibile per tutti…
Sì, non è qualcosa che si può decidere alzandosi la mattina. È proprio un cammino, almeno per me è stato così: un piccolo passo ogni giorno. Quando fai questa scelta, cerchi di concentrarti. Nella nostra vita noi abbiamo dei segni che ci confermano oppure ci indicano altre strade. Io sono stata aiutata tantissimo proprio dai segni di Dio nella sua infinita misericordia. Certo i segni devi saperli vedere, saperli leggere e soprattutto saperli accettare, ma sono certa che Dio li manda a tutti e questa è una grande sicurezza. Posso fare un esempio: durante il processo, c’era un imputato che è andato in fondo all’aula dove c’era suo figlio, lo accarezzava e lo abbracciava con una tenerezza incredibile. Io non so che cosa si dicessero, ma lui gli indicava la porta e la sensazione era come se gli dicesse “Grazie di essere venuto, ma adesso vai. Non ho bisogno. Non voglio che tu sia qui”. Quando ho visto questa scena, mi son detta ma lui è anche come me, e io avrei fatto la stessa cosa al suo posto. Questo segno io me lo sono archiviato nel cuore. Ho guardato quell’imputato non più come l’assassino, ma con tenerezza. Ho avuto tre o quattro segni e ho potuto ridare alle persone responsabili della morte di mio marito la loro umanità. Che diritto ho io di relegarli per tutta la vita all’atto peggiore che hanno compiuto? Ho capito questa cosa fondamentale attraverso i segni, che devi proprio cercarli e saperli vedere, oltre che avere l’umiltà di accettarli. E allora devi guardare l’altra persona in toto, cioè in tutta la sua vita, ridandole l’umanità e la dignità di persona. Quando noi abbiamo qualcuno che ci ha offeso, non possiamo ogni giorno pensare a quella persona e legarla solo a questa o quell’offesa, perché quella persona cammina con il cuore, è fatta di sentimenti e molto altro. Ecco, se la vedi così, le ridai l’umanità e capisci la sua fragilità, allora puoi cominciare il percorso di perdono.
Lei ha chiesto anche ai suoi figli un comportamento esemplare per riabilitare la figura del loro padre. Perché?
All’inizio c’erano due racconti differenti: quello del paese e dello stato, e quello nostro, ma piano piano si è arrivati alla riabilitazione di Luigi Calabresi, facendo conoscere al paese il vero Luigi Calabresi, non quello delle calunnie. Avevo detto ai miei figli: “Riabiliteremo la figura di papà con il nostro comportamento”. E devo dire che loro mi hanno veramente seguito e così è stato, perché oggi si guarda a Gigi come ad un onesto servitore dello stato, oltre che un padre amorevole e un uomo di cuore.
Qual è l’ultimo ricordo di suo marito?
La mattina del 17 maggio abbiamo bevuto il caffè insieme e poi lui è uscito dopo che mi ha salutata. Poco dopo, mentre io davo la colazione ai bambini, l’ho visto ripassare in anticamera. Ho pensato che avesse dimenticato qualcosa, Gigi è tornato a salutarmi e ho notato che aveva cambiato cravatta: prima ne aveva una rosa di seta, mentre ora una bianca di lana. Mi chiese come stesse e io risposti “Stai bene, ma andava bene anche quella di prima” e lui mi rispose “Sì, ma questo è il simbolo della mia purezza”. Queste sono le sue ultime parole e per me sono come un testamento.
Questo dolore poteva bloccarla, invece lei ha continuato ad amare la vita.
Certamente i miei figli (Mario, Paolo e Luigi) sono stati motivo di gioia, poi sono arrivati Tonino Milite, il mio secondo marito, e nostro figlio Uber ad aumentare la gioia. Il lungo matrimonio con Tonino è stato molto bello, anche perché lui ha sempre avuto l’umiltà di stare un passo indietro davanti alla figura ingombrante di Gigi. Abbiamo potuto far vivere Gigi parlandone sempre in casa e Tonino è stato un vero padre per tutti i miei figli. Non è mai stato geloso anche quando ho rischiato di essere considerata solo la vedova Calabresi. Poi sono arrivati i miei nipoti ad allargare la gioia della vita e io mi rendo conto che l’ho amata tanto, questa vita. Così tanto che, nonostante il dolore, non la cambierei con nessun’altra.
sr. Naike Monique Borgo