“Il giusto limite”: il seminario del CTI

16
Lug

Strategie della violenza, possibilità della pace

Il termine “limite” deriva dal latino limes, una parola che un tempo indicava quella zona, quel confine che delimitava due campi o territori. Fosse una strada, un sentiero oppure un corso d’acqua; in ogni caso era un posto che si poteva vedere e in cui si poteva stare. Il limite può essere abitato e, in questo tempo complesso e delicato, tutte e tutti siamo chiamati ad uscire dalla logica della polarizzazione che ci vorrebbe vittime o carnefici. Così, se non vogliamo essere né l’uno né l’altro, non ci resta che cercare il giusto limite in cui stare.

Il giusto limite. Strategie della violenza, possibilità della pace è il titolo del seminario annuale del Coordinamento Teologhe Italiane che si è tenuto a Roma il 18 maggio 2024. Un seminario che “ci convoca in un tempo difficile di guerre e di pratiche di dominio senza scrupoli e vuole aprire varchi per un altro modo di abitare il mondo”. La giornata è stata inaugurata dall’intervento della biblista Emanuela Buccioni che ha approfondito il tema del sacrificio nella Bibbia indagando le diverse sfaccettature nel testo biblico e sottolineando le fatiche e le conseguenze di un certo tipo di interpretazione. “Fino a che punto è legittimo dare la (una) vita per la vita?”. Veramente il Signore chiede in cambio vite (o, meglio, la morte) agli uomini e alle donne che credono in Lui? I passi della legatura di Isacco (Gen 22,2), della figlia di Iefte (Gdc 11,30-31) e i racconti delle conquiste (Gs 8,1-29) sembrano rispondere in modo affermativo a queste domande e il volto di Dio che ne risulta è quello di un Dio che chiede morte e sacrifico come dimostrazione di obbedienza. Il significato, però, cambia se assumiamo un altro punto di vista: quello del Dio che si è pienamente rivelato nel sacrificio vivente di sé per amore una volta per tutte. Allora, “far salire il figlio sul monte”, non sarà più in vista di un sacrificio sull’altare, ma diventerà un’esortazione ad insegnare ad Isacco come rivolgersi a Dio e avere fede in Lui; nel sacrificio della figlia di Iefte non leggeremo più una storia di fedeltà alla parola data, ma l’incapacità dell’umano di cogliere il limite. E in ogni passo biblico che descrive un atto di violenza, non vedremo più la volontà divina, ma sapremo distinguere la cieca obbedienza, dalla fede che richiede un continuo discernimento. Persino le narrazioni evangeliche sulla crocifissione di Gesù – ha evidenziato Cristina Simonelli – sono state interpretate portando il Cristo crocifisso ad essere l’eroe che pende dal patibolo, esempio di sacrificio e dolore e modello di sofferenza al quale gli uomini e soprattutto le donne si devono ispirare; dimenticando, però, che quel sacrificio non solo non dovrebbe essere ripetuto, ma ha anche smitizzato le rappresentazioni più ingenue di Dio. A questo proposito, l’interpretazione di genere si chiede quali ricadute abbia sulle donne una teologia della croce che enfatizza l’obbedienza e la sottomissione e non pone l’accento sul vero significato della discesa agli inferi: cioè discesa in quei gironi infernali che l’umanità si crea nella terra e che diventa solidarietà con tutte le vittime di violenza. Non possiamo rimuovere l’esistenza del male e della violenza, ma su di esse possiamo assumere lo stesso sguardo di Dio, che è sguardo di indignazione per le ingiustizie, sguardo che si commuove e fa muovere verso l’atto della cura, in un mondo capitalistico segnato dalla pedagogia della crudeltà (Letizia Tomassone). Tuttavia – ha aggiunto Donata Horak nella sessione del pomeriggio – la sola indignazione non basta: è necessario stare, abitare i conflitti ed essere disposti ad indossare delle lenti alternative a quelle della giustizia retributiva che non è mai perfetta e rischia di far diventare anche Dio complice della violenza umana. Un esempio di nuove lenti – ha spiegato – sono quelle della mediazione umanistica, fondata da Jacqueline Morineau, che è in grado di mettersi veramente in ascolto di tutte le parti coinvolte nel conflitto, tanto della loro voce, quanto dei loro sentimenti e desideri. Infine, Vincenzo Rosito e Stella Morra hanno individuato degli orientamenti e dei criteri sui quali ci dobbiamo muovere richiamando l’etica della responsabilità. Il primo orientamento è l’irriduzionismo, cioè l’atto del dispiegare le azioni invece che ricondurle a forme identificate e condizioni riconoscibili; il secondo è il minore, che è il contrario del funzionale e lascia spazio all’imprevisto, all’insorgenza della vita; il terzo è la corrispondenza, la capacità di alternare gesti di fare e subire e un promemoria della fragilità del nostro controllo sul mondo. A questi si accompagnano i criteri del discernimento complesso, dell’ambivalenza della realtà e dell’esito non garantito il quale rimanda alla necessità di saper abitare l’incertezza e stare nel limite.

Lucia Fontana