Una lettura della parabola del Buon samaritano
“Chi è il mio prossimo?”. È questa la domanda che dà origine a una delle parabole sicuramente più note, quella del Buon samaritano. Essendo molto conosciuta, c’è il rischio che la si legga o ascolti in modo superficiale, tanto pensiamo di sapere già il suo significato e quello che ci vuol comunicare. Invece, la ricchezza dei testi dei Vangeli (come dell’intera Bibbia), sta proprio nella capacità di poterci dire sempre qualcosa di nuovo ogni volta che ci avviciniamo ad essi.
La domanda del dottore della legge, fatta per mettere alla prova Gesù e vedere come avrebbe risposto, aveva un suo senso a quel tempo perché, soprattutto tra gli studiosi della Legge ebraica, c’erano grandi discussioni su chi fosse il prossimo da amare. Per alcuni il termine indicava solo i puri ebrei osservanti della Legge; per altri tutti gli ebrei che professavano la stessa fede; per una minoranza, potevano essere considerati prossimo tutti gli esseri umani.
Si tratta della grande tentazione di ogni gruppo o religione: mettere paletti, dividere i meritevoli (secondo la nostra opinione) da chi non lo è, esprimere giudizi, creare separazioni: noi e gli altri, quelli da amare e quelli da odiare.
Così, come sempre, Gesù stravolge tutto e racconta di un uomo attaccato dai briganti, derubato di ogni cosa, forse anche dei vestiti che avrebbero potuto dire ancora qualcosa della sua identità, lasciato sulla strada, percosso a sangue e in fin di vita. Passano sulla stessa strada un sacerdote e un levita, uomini di Dio che, per la Legge, non dovevano entrare in contatto con l’impurità, in questo caso con il sangue. Lo vedono – o meglio non vedono la sua sofferenza e le sue ferite, ma solo il pericolo di contaminarsi – e passano oltre. L’osservanza della Legge ha, in quel momento, più valore della vita di quell’uomo e, così facendo, ci consegnano la domanda, valida in ogni tempo e a cui Gesù dà una sua risposta alla fine del brano, se la legge che noi consideriamo divina va osservata anche quando causa sofferenza agli esseri umani.
Un samaritano, considerato dagli ebrei un impuro, un eretico, una persona da evitare, che era in viaggio, lo vede e ne ha compassione. Il testo ci dice che è “commosso fino alle viscere” (v. 33), lo stesso verbo materno che definisce Gesù quando vede la vedova di Nain che portava il figlio morto alla tomba (7,13). Il samaritano si prende cura di lui, dà sollievo alle sue ferite e, mettendolo sulla sua cavalcatura, sceglie di farsene carico. Modifica i suoi programmi di viaggio, lo porta in un albergo e all’albergatore (altra categoria poco apprezzata dagli ebrei perché davano ospitalità a pagamento) chiede di prendersene a sua volta cura, lasciandogli del denaro. Non lo abbandona, promette di fare ritorno.
Al termine del racconto Gesù capovolge la domanda iniziale del maestro della Legge chiedendogli: “chi si è fatto prossimo? Vai e fai altrettanto”.
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. L’incontro che cambia la vita di quella persona non avviene né a Gerusalemme, la città di Dio, né a Gerico, una delle città più antiche al mondo, fondamentale per gli ebrei che l’avevano conquistata per entrare nella Terra promessa al termine del lungo viaggio dell’Esodo; ma accade lungo la strada, in uno spazio e in un tempo intermedio, non definito, nello spazio della normalità potremmo dire, durante il cammino.
Questa persona, nell’intero brano, è l’unica a non essere definita in alcun modo, poteva essere chiunque: un ebreo, uno straniero, un oppressore… Solo una cosa si dice di lui dopo l’incontro con i briganti: è pieno di ferite. Certo, Gesù addita al dottore della Legge il samaritano come esempio da seguire e già questo era sconvolgente per quell’epoca, ma il brano può dirci altro solo a cambiare prospettiva. Quell’uomo senza identità potrebbe essere ciascuna e ciascuno di noi, con tutte le ferite inferte da altri e dalla vita. Siamo noi, spesso, ad aver bisogno di qualcuno che ci veda così come siamo in quel punto del nostro cammino, che riconosca le nostre ferite, perché le ha sperimentate o perché è disposto a conoscerle, e si prenda cura di noi.
Il brano di Luca ci dice che quel qualcuno/a è l’altro/a anche se non è “dei nostri”, colui o colei che istintivamente terremmo a distanza, che mai potremmo immaginare possa provare per noi compassione e cura di madre per le nostre ferite e fragilità.
Come l’uomo della parabola di Gesù ha visto cambiare la sua vita dalle azioni del samaritano, così ciascuna/o di noi, riconoscendo che dall’altro/a può arrivare salvezza e cura, può emergere come persona nuova dall’incontro. Forse, come uomini e donne “capaci di osare l’inosabile, di vivere la differenza come benedizione e non come maledizione. Come speranza e non disperazione. Come kairòs e non disgrazia” (Brunetto Salvarani).
Donatella Mottin