“Il coraggio della disperazione? Forse. È il coraggio dell’amore, di sicuro. Che non ti fa pensare a te stesso, ma a chi ami”
Che bello essere usata per pettinare i capelli di questa bambina dallo sguardo così intenso! I volontari del servizio dei gesuiti per i rifugiati mi hanno appena regalata, e lei seria seria ha deciso di usarmi subito, come la mamma le ha insegnato: “Pettina sempre bene i tuoi capelli, Fatimeh, bisogna essere pulite e in ordine, cerca di farlo con cura!”.
Anche in questo campo profughi, questa bambina obbedisce alla mamma. Ora ha cominciato a non fare più tanto freddo, non c’è la neve che ha sferzato e raggelato per mesi queste persone bloccate a Lipa, vicino a Bihac, in Bosnia, per così tanto tempo. E con il sole e un po’ di caldo, ci si può lavare, mettere in ordine, mangiare qualcosa che hanno portato gli aiuti umanitari che vengono anche dall’Italia. C’è pure uno strano fotografo che riesce a farsi capire in una lingua che tra l’inglese, l’italiano, il traduttore Google: fa ascoltare delle frasi in farsi, la nostra lingua, e chiede di poter scattare qualche bella foto. È simpatico, questa bambina sorride con lui.
Sono una bella spazzola, e Fatimeh mi tiene sempre con sé, quasi come un orsacchiotto: che ovviamente non ha, visto che nel lungo viaggio che ha intrapreso con sua sorella e i genitori, hanno perso tutto quello che avevano.
Sono di etnia hazara, una minoranza afghana perseguitata dai talebani e discriminata anche in Iran, dove molti hazara si sono rifugiati. Storie di donne e uomini che vivono per decine di anni in grandi città, si sposano, hanno figli, ma non hanno mai nessun documento: né in Iran, né in Afghanistan queste persone esistono con un’identità riconosciuta. Ombre: che non devono lasciare impronte.
Strana la vita di una piccola spazzola come me, vero? Vengo regalata ad una bambina in un campo profughi: e mi affeziono a lei, entro nella sua famiglia, ascolto i racconti dei grandi che narrano di un ultimo lungo viaggio iniziato nel 2019: “Sono partito per poter vivere” – dice il papà – “per dare un futuro alle mie figlie e a mia moglie. In Iran e in Afghanistan non potevamo più esistere, le mie bambine non hanno mai potuto andare a scuola. Mai un documento, una stabilità di vita. Ho lavorato molto, ho raccolto i soldi per poter fare il lungo viaggio: mia moglie era d’accordo. Non potevamo più andare avanti così”.
A quello strano fotografo che parla spesso a voce alta vedo che si riempiono gli occhi di lacrime: capisce cosa stava succedendo. Una moglie, due figlie che crescono… se non hai nessun documento, se non hai nessun diritto, basta lo sguardo interessato di qualcuno e non le vedi più: non esistono, non lasciano traccia, possono farne ciò che vogliono.
E sento anche quelle parole che subito non capivo, perché la mamma parla a bassa voce, ma decisa: “Abbiamo deciso di andare in Europa: sapevamo che lì si può vivere, non ti rapiscono, non ti fanno sparire, ti danno i documenti. I bambini vanno a scuola, tutti. Io voglio che le mie bambine vadano a scuola, e siano al sicuro”.
Il fotografo scatta una bella foto a quella che adesso lui chiama “la mia famiglia” (anche se una famiglia ce l’ha già!) e parte dal campo profughi assicurando che telefonerà e che li aiuterà a raggiungere un paese europeo. A dire il vero, questa famiglia è già approdata in Europa: ha attraversato la Turchia, è arrivata all’isola di Samo, poi ad Atene, e poi in Bosnia. Quanta strada fatta a piedi! Ma nel campo di Lipa è ferma da più di un anno: il bosco, il freddo, il fiume pericoloso, la polizia che li perseguita, che lancia i cani sulle loro tracce… quanta paura! E quanto dolore…
Non sono ancora arrivati in quell’Europa che accoglie, che difende, che fa andare a scuola, che integra, che ha lavoro e case, che ha tanti beni, che riconosce i diritti e i doveri degli esseri umani.
“Mamma, basta, non piangere! Pettinami tu, adesso, dai! Se tu piangi, io ricordo e ho paura”.
Adesso cambio mano, questa mamma è proprio brava a spazzolare i capelli: ma piange, cercando di non farsi vedere da Fatimeh e da Dina. Per fortuna che ora si calma un po’, e Dina mi prende per pettinare i suoi capelli. “Adesso tocca a me, sono la più grande, ho 9 anni: faccio da sola!”.
Così la mamma parla ancora con la volontaria che ci ha raggiunte: piange sempre quando ricorda i pericoli e soprattutto quando vede quel fiume in cui Fatimeh è scivolata, scappando dai cani. Stava affogando! Il papà però è riuscita a salvarla. Che coraggio, questo papà! Il coraggio della disperazione? Forse. È il coraggio dell’amore, di sicuro. Che non ti fa pensare a te stesso, ma a chi ami.
Ma… dove mi mettono, ora? Sono nello zainetto, al buio, e mi trasportano non so dove. Spero che sappiano dove andare! Sento la mano della piccola che ogni tanto si assicura che io ci sia: sono la sua spazzola-orsetto, non devo dimenticarmelo! Ma sento tutta la tensione di un viaggio in treno e poi in pullman, che non capisco.
Non c’è nessuno che li accompagna, ma non c’è nemmeno nessuno che li insegue: beh, un buon segno. Provo a sbirciare da questo zainetto, ma c’è troppo buio intorno: viaggiamo di notte, non vedo niente.
Ah, finalmente mi riusano! Che bel sole… anche se i capelli non sono proprio lavati, Fatimeh si pettina: “Fai presto, che siamo in Italia: e tra poco arriva lo ‘zio’ fotografo!”.
Arriva, è vero: e ci porta vicino a casa sua, in un paese piccolino, bello. E io sto finalmente dove devo essere: sulla mensola del bagno!
Ma le bambine vengono spesso a prendermi: sono la loro spazzola – orsacchiotto, che dà sicurezza, oltre che bellezza!
La mamma sorride, il papà è sereno: le bambine hanno dei libri, dei colori, dei quaderni. Intorno, il sole risplende: ridona coraggio, speranza.
Come i visi benevoli che attorniano questa famiglia.
Chissà, forse è davvero il tempo di esistere, di esserci, di vivere.
Inshallah! Se Dio vuole.
sr. Federica Cacciavillani
Partiti dall’Iran nel 2019, Jawed, Sakineh, Dina e Fatimeh sono in Italia da marzo 2022. Hanno fatto richiesta di asilo e sono in attesa di risposta. Speriamo in un buon esito della loro richiesta. Li accompagniamo con il pensiero, l’affetto, la solidarietà.