Donne ucraine, russe e di ogni luogo, e i loro gesti coraggiosi e trasformativi a favore della pace
A più di tre mesi dall’inizio della guerra tra Russia e Ucraina e con l’opinione, che sempre più si fa strada, che essa potrà durare ancora a lungo, c’è il rischio di abituarsi alle notizie e alle immagini di desolazione, violenza e morte che ogni giorno ci vengono proposte.
Sono foto di case distrutte, mobili, oggetti, foto spazzati via dalle bombe, anche se purtroppo la guerra non distrugge solo le cose, ma uccide la vita delle persone, anche di chi non muore e dovrà fare i conti con quello che resterà, con un futuro che non si può ancora immaginare, né come modi, né come tempi.
Immagini strazianti delle lunghe fila di donne, bambini, malati e anziani che cercano di mettersi in salvo; donne il cui coraggio si intreccia, in modo lacerante, alla scelta se fuggire per salvare se stesse e chi è a loro affidato e il desiderio di rimanere nella propria terra con chi resta.
Notizie di corpi morti accatastati in fosse comuni e di stupri perpetuati sulle donne perché, ancora oggi, in tutte le guerre presenti nel mondo che non dobbiamo dimenticare, il corpo delle donne è, come il suolo che si calpesta, terreno di conquista sul quale sfogare la radice della violenza: lo stupro come vera e propria arma di guerra.
Forse è anche per questa consapevolezza che, accanto alle donne ucraine, molte altre donne di vari paesi hanno manifestato contro la guerra.
Anche in Russia migliaia di donne e giovani si sono mobilitati per esprimere il loro dissenso nei confronti di questa aggressione unilaterale, e non era certo facile scendere nelle piazze di San Pietroburgo o di Mosca sapendo che si sarebbe andati incontro a brutali repressioni e a probabili arresti. Sono soprattutto gruppi di femministe, che hanno approfondito anche in passato le dinamiche delle guerre per la ricaduta che sempre hanno in particolare sulle donne, a inventare modi non violenti e creativi (biglietti attaccati ai muri, graffiti, messaggi on line, ecc.) per esprimere il loro no alla guerra, facendo emergere come nelle città del paese aggressore risuonino anche linguaggi diversi.
È importante trovare il modo di far sentire la propria voce, anche perché attorno ai tavoli di guerra russi e ucraini, dove si decidono interventi e si discutono confini, a parte Elvira Nabiullina governatrice della Banca centrale russa, non ci sono donne, che invece sono sempre presenti dove la guerra si subisce. Bisogna fare eco alle centinaia di volti e di storie di sofferenza e disperazione, ma anche ai racconti di incredibile dignità, di chi trova la forza di resistere, nonostante vite devastate per sempre.
Alcune di queste donne hanno scelto di combattere nelle file della resistenza, in prima linea o nelle retrovie, così come abbiamo anche visto donne e bambini preparare bombe molotov per fronteggiare il nemico, rudimentale contributo per la difesa della propria terra; sono realtà che ci interrogano: è possibile essere e soprattutto restare non violenti quando la guerra si fa vicina e concreta e migliaia di persone, senza alcuna colpa, muoiono sotto le bombe di un esercito che ha violato ogni norma del diritto internazionale? Quali possono essere gli strumenti di una non violenza in grado di contrastare attivamente il ricorso alle armi?
È necessario continuare a tenere aperti cuore e mente su questa guerra che non riguarda solo Russia e Ucraina, ma che ci interpella tutte/i come, in un mondo interdipendente come il nostro, ogni guerra dovrebbe fare.
Questa guerra politica ed economica che chiede di pensare e lavorare per un nuovo ordine globale, ha coinvolto in modo particolare anche la chiesa cristiana, non solo per quanto riguarda la spaccatura tra la chiesa ortodossa russa e quella ucraina, ma anche per la chiesa cattolica rispetto, ad esempio, all’invio di armi all’Ucraina. Se la teologia della pace è stata più volte presa in esame, soprattutto a partire dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII, manca probabilmente un più costante approfondimento che affronti la gestione dei conflitti all’interno e tra le diverse chiese (e qu l’ecumenismo emerge come spazio privilegiato da rafforzare) come pure nella società civile, a partire dall’ascolto della Parola e delle parole degli altri/e.
Accanto al coraggio delle donne ucraine e russe, a noi donne e uomini dei paesi dove la guerra non è presente, viene forse chiesto di abitare con sempre più consapevolezza questa complessità di pensieri e situazioni, senza cedere alla tentazione di una chiusura rassicurante, ma sostenendo e dando vita – dove possibile – a processi e spazi di riconciliazione che affrontino il fare la pace per vedere e sentire l’altra/o nella sua sacralità di persona umana, quella stessa sacralità di cui la guerra fa strage.
Donatella Mottin