Pubblichiamo l’articolo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 6 maggio 2023.
Dove è l’amore di Dio, quantunque embrionale, rozzo, grezzo, oscurato, sotterraneo e non all’aperto, ivi è il cuore quantunque ferito dell’uomo; ed è da pensare che lì vi sia Iddio, e dunque la pietà
Giuseppe De Luca, Introduzione all’archivio italiano della storia della pietà, p. XXI
Le metafore teologiche sono indispensabili e pericolose. In queste settimane molti lettori e alcuni teologi hanno ribadito, di fronte alle mie critiche, la necessità della metafora economico-commerciale per comprendere la rivelazione cristiana. Perché la troviamo nel Nuovo Testamento, e anche san Paolo la usa.
In effetti, nella Prima lettera ai Corinzi troviamo addirittura la parola prezzo: «Siete stati comprati a caro prezzo» (7,23). Una frase, tra l’altro, molto amata e “cara” al teologo Dietrich Bonhoeffer, che contrapponeva la salvezza “a caro prezzo” alla salvezza “a buon mercato”. Ma nelle lettere di Paolo troviamo altre metafore, tra queste quella sportiva: «Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio?… Io dunque corro; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria» (1 Corinzi 9, 24-26). Nessuno, leggendo queste immagini sportive, ha però mai pensato che il pugilato o la corsa siano essenziali e necessarie per spiegare la teologia di Paolo. Né qualche teologo ha (ancora) mai pensato di descrivere la vita cristiana o la Chiesa come una corsa di atletica o un combattimento di pugilato, dove “solo uno conquista il premio”. Si sono fatti invece usi parziali della metafora sportiva senza spingerla fino in fondo. Ma, sorprendentemente, ciò che non si è fatto per lo sport lo si continua a fare con l’economia, che è molto più amata dai teologi che dagli economisti. Alcuni teologi si sono talmente innamorati dell’economia da non usarla soltanto in senso generico e parziale; la usano integralmente e immaginano “l’economia della salvezza” come uno scambio di equivalenti, come un vero e proprio contratto commerciale – Gesù ha pagato il prezzo, il suo sangue, per acquistare dal Padre la salvezza. Le metafore bibliche sono invece aurora di discorso, il suo inizio. L’altra metà deve restare non detta, per non finire imprigionata dal linguaggio: solo le metafore parziali sono buone, perché, essendo incomplete, lasciano uno spazio libero tra il mistero di Dio e le nostre idee teologiche. Le metafore sfruttate fino in fondo si divorano il mistero che vorrebbero svelare.
In queste settimane abbiamo incontrato, qua e là, il tema della pietà popolare. Come ha scritto don Giuseppe de Luca, che sulla pietà ha vergato le pagine più belle, «nella vita cristiana la pietas così concepita coincide, non tanto con l’ascetica né con la mistica non tanto con la devozione o con le devozioni, quanto con la “Caritas”» (Introduzione all’Archivio italiano della storia della pietà, p. XIII). La pietà sarebbe quindi una faccenda d’amore, di agape. E lo è stata, forse la più grande.
Senza l’immenso movimento della pietà, ad esempio, non avremmo sviluppato nei Paesi cattolici le infinite opere sociali, gli ospedali, le scuole: «Mentre i grandi collegi educavano la nobiltà e la grande borghesia benestante, le scuole popolari, dal Calasanzio al De la Salle, badavano al popolo minuto. Insieme sorgevano le opere di assistenza “de fonte pietatis”» (Introduzione, p. LXI). Gli abbracci e i baci alle statue nelle chiese divennero abbracci a uomini e donne in carne ed ossa. Anche se, come sottolinea De Luca, tutti i grandi processi producono i loro effetti indesiderati: «Indigenti, orfani, malati, invalidi, dal secolo XVII in qua è stato un daffare sempre crescente per soccorrerli, sino a indurre il sospetto se la carità, tanta mole di carità, non finisse per schiacciare nel cuore degli uomini il concetto di giustizia, che vi ha avuto sempre pochissimo posto. Piace assai più essere generoso che giusto» (Ivi). Nell’Europa moderna abbiamo avuto diverse visioni delle ragioni del soccorrere i poveri. Da una parte, ci sono pastori, santi, benefattori che davano vita a istituzioni di assistenza con lo scopo di far sì che chi si trovava in condizioni di indigenza potesse presto uscirne. Dall’altra parte, ci sono altri, quelli menzionati da De Luca, che erano meno preoccupati delle povertà e vivevano l’aiuto ai poveri come opera buona per la salvezza dei ricchi: «Dio avrebbe potuto rendere ricchi tutti gli uomini, ma ha voluto i poveri affinché i ricchi avessero l’occasione di redimere i propri peccati» (“La vita di Sant’Eligio”, citato in B. Geremek La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, 1986, p. 9). Un’idea, questa, che è giunta fino alla modernità cattolica: «I poveri si salveranno soffrendo con pazienza la loro povertà e domandando con pazienza gli aiuti ai ricchi. I ricchi troveranno come riscattare i loro peccati portando compassione verso i poveri… Per i ricchi è un dovere indispensabile fare l’elemosina ai poveri perché ne dipende la loro salvezza» (Sermons du Curé d’Ars, Vol. 1, p. 77). Questa visione della pietà tende, in buona fede, a perpetuare la divisione tra ricchi e poveri.
L’altra idea di aiuto ai poveri era invece quella dei Monti dei pegni dei francescani chiamati, non a caso, Monti di pietà. Nell’età della Controriforma anche i Monti di Pietà conobbero un declino. Non furono più legati al mondo francescano, e i frati restarono come cappellani. A partire dal Seicento i Monti gradualmente si estinsero, quelli che sopravvissero si trasformarono in banchi dei pegni con funzioni residuali o di assistenza (ringrazio fra Felice Autieri per questa informazione).
La pietà popolare è stata qualcosa di molto più grande di queste cose già grandissime. Più grande perché è stata qualcosa di piccolo, di minuscolo. I libri di pietà, scritti da vescovi e da teologi, raccontavano una idea di Dio distante, severo, tutto preoccupato ad apparecchiarci il tribunale del giudizio finale. I catechismi popolari insegnavano che il «fine dell’uomo» era «servire Dio», in vista della salvezza futura (Esercizi spirituali per monache, Il Buon Pastore, Lodi, 1911, p. 20). Dal fine dell’uomo derivava poi il «fine della donna»: «Dio creò la donna per consolare Adamo» (p. 28). Per le monache, poi, non avendo un Adamo, il fine doveva evolvere, e divenne «salvare le anime degli altri», in particolare (in quell’Istituto) delle fanciulle: «Quale fine ebbe Dio nel creare tante povere fanciulle? Procurar loro il Paradiso» (p. 43). Religione trasformata in disumanesimo, dove l’amore di Dio generava un disamore per le cose umane create.
In questa religione tutta orientata alle “cose di lassù”, la pietà popolare divenne un immenso esercizio collettivo di sovversione, una via di salvezza per le “cose di quaggiù”. Fu, a modo suo, un meraviglioso inno alla vita. Quelle statue con il volto stupendo di Maria e di Gesù, quelle immagini di santi e sante che somigliavano moltissimo a loro, ai loro figli e figlie, quelle chiese barocche popolate di angeli-bambini e da una infinità di Gesù-bambino più numerosi dei crocifissi, furono i veri protagonisti dell’altra religione della gente, furono il volto diverso e buono di Dio – la pietà fu la ControControriforma popolare, fu la risposta, sovversiva e mite, delle donne alla religione troppo clericalizzata.
Il 90 o 98% della gente, soprattutto quella delle campagne, delle montagne, dei borghi, i libri di preghiere non li poteva leggere, né aveva i soldi per comprarli. Quelle cose erano per le persone istruite, per i preti, forse per le suore e per le monache che furono le grandi vittime della Controriforma, mortificate da una fede non-biblica tutta orientata al paradiso delle anime che trasformò la terra dei loro monasteri in un inferno dei corpi. Ma – e qui sta lo scacco matto della Provvidenza – la gente del popolo, le donne soprattutto, furono protette dal loro analfabetismo, e così restarono (quasi) immuni da quella teologia troppo divina per essere anche umana.
Non saper leggere i libri e le preghiere colte le costrinse a inventarsi una loro preghiera: e fu stupenda. Ogni tanto restarono catturati dagli antichi riti del malocchio e della magia, ne abbiamo parlato. Ma molte altre volte inventarono parole e immagini per parlare con Dio: e nacque lo spettacolo della pietà popolare, che fu un grande luogo di libertà, soprattutto delle donne in un mondo che restava per loro di servitù. Entravano in Chiesa, facevano finta di rispondere alle preghiere incomprensibili e alle giaculatorie latine dei preti, ma nel loro cuore e dalla loro bocca uscivano, sussurrate, parole e suoni diversi. E soprattutto piangevano: bagnavano quelle statue con tutte le loro lacrime fino a consumare colori, legno e stucchi. Pregavano con le lacrime e soprattutto con i baci e con le mani: preghiere mute bellissime fatte di carezze e di baci, mani nodose e nere che però sapevano fare carezze stupende e baciare le statue dei santi, della Madonna, e soprattutto degli angeli e dei bambinelli, carezze e baci che a casa non ricevevano mai da nessuno, perché troppo terrestri per poter essere religiosi. E in quegli angeli bellissimi rivedevano i loro troppi bambini nati morti, i figli volati via fanciulli e giovinetti. Così sconfiggevano quelle teologie assurde che per innalzare Dio abbassavano l’uomo e la donna. E trasformavano le lodi alla Madonna (“La Donna del paradiso” di Jacopone da Todi) in stupendi canti ai loro figli morti: «Figlio, amoroso giglio, figlio occhi giocondi, figlio di mamma scura, figlio della sparita, figlio attossicato, figlio: a chi mi appiglio? Figlio mi hai lasciato, figlio perché t’ascondi dal petto, oh sei allattato» (citato in De Martino, Morte e Pianto…, p. 341).
La fede cattolica è ancora viva, anche se malata gravemente, soprattutto per queste donne del popolo che l’hanno umanizzata con la loro pietà, con baci e carezze, l’hanno salvata con la loro trasgressione: «Il virgiliano ramo d’oro è la pietas» (De Luca, Introduzione, p. LXVI). E così con le loro mani e i loro baci toccarono davvero Dio e scrissero i loro bellissimi “kerigma” popolari, diversi da quelli del catechismo ma che avevano l’odore e la fragranza della vita e del pane: «Cristo fu seminato dal Creatore, germogliò, venne a maturazione, fu mietuto, legato in un covone, traportato nell’aia, trebbiato, vagliato, macinato, chiuso in un forno e dopo tre giorni tratto fuori e mangiato come pane» (citato in De Martino, p. 343).