Donne e sinodo: se non ora, quando?

19
Dic

La condizione delle donne nella chiesa tra prassi sinodale, stile ecclesiale e tensioni strutturali al cambiamento

Il sinodo dei vescovi che ha appena concluso la XVI sessione ordinaria ha come compito di pensare la chiesa in termini sinodali, e poiché la chiesa non è strutturata in termini sinodali – per la stragrande maggioranza dei responsabili ecclesiali non solo la parola ma anche i valori che ad essa soggiacciono erano del tutto estranei o periferici fino a dieci anni fa – il sinodo si ritrova il compito di ripensare la chiesa intera. Proprio per questo è al centro di tensioni e dibattiti, perché quelli che non vogliono in alcun modo la riforma denigrano o minimizzano o trovano qualsiasi altra strategia per frenare ogni pensiero, ogni dubbio, ogni possibile passo in avanti, mentre quelli che da tempo studiano e attendono cambiamenti, sono frustrati, affaticati, vorrebbero valorizzare i passi in avanti ma gli sembra di trovarsi sempre al punto di partenza. Su tutti il tema donne e la partecipazione pubblica delle donne alla vita della chiesa (ministeri, decisioni, responsabilità) è il pomo della discordia, perché una considerazione reale del battesimo e dei carismi delle donne farebbe venire meno moltissime delle strutture, delle prassi e delle dottrine clericali che sbilanciano l’intera chiesa in una direzione che non è quella del Vangelo. Poiché è così importante, dunque, poiché c’è in gioco molto più che dare qualche spazio anche alle credenti, si resiste fortissimamente. Inoltre quasi nessuno – certamente non gli uomini di chiesa – ha fatto i conti con le proprie rappresentazioni di genere, con i modelli introiettati, con le proprie paure e il proprio modo di pensarsi maschio (vale anche per le femmine ovviamente), e così molto spesso si proietta sulla volontà di Dio o sulla sua Parola [!] semplicemente il mondo che si vorrebbe, l’ordine stereotipato e oppressivo per le donne (e quindi per tutti) visto nell’infanzia o nella prima giovinezza. In conclusione sulle donne in genere e sulle donne nella chiesa si fa un’enorme fatica.

Però, c’è un però. Però, le donne ci sono e sono state anche al sinodo, sedute alla pari con tutti gli altri, con diritto di parola e di voto. Ciò che facciamo è capace di trasformare ciò che pensiamo e anche di rimettere in discussione identità e valori. Un uomo che si abitua a occuparsi dei propri figli può sentirsi meno maschio, rimanendo in un modello anaffettivo e irresponsabile del maschile, oppure può scoprire un modo di vivere la propria maschilità commisurato ai bisogni di quelli che ama e quindi, in ultima istanza, di se stesso. Le prassi modificano il nostro quadro di riferimento, il nostro orizzonte portando novità inattese.

La domanda potrebbe essere allora: perché mai fare prassi nuove? Perché non tenersi quelle che si allineano con i miei schemi e le mie rappresentazioni della realtà? Perché onestamente mi accorgo che quelle che ho non funzionano più, non fanno vivere altri, non liberano, non portano frutto. Per questo ci si ferma e cambia: per amore, per prendersi cura, per obbedienza alla realtà che ci parla e nella quale Dio ci parla chiedendoci conto delle vite che vanno perdute o che vengono soffocate.

Ed ecco da dove viene la nuova prassi del sinodo, ecco da dove sorgono le tante domande sulla struttura ecclesiale e sulle relazioni ecclesiali, ecco perché i tentativi di spostare qualcosa. Queste domande hanno portato al ripensamento del sinodo dei vescovi (che già all’inizio con Paolo VI era un ripensamento del ministero petrino) nella direzione di un processo sinodale capace di coinvolgere le chiese. In concilio, ciò che ha spinto verso una novità che nessuno – ma proprio nessuno – immaginava prima, è stata la prassi conciliare, il modo in cui il concilio è stato condotto, l’incontro reale, lo scontro, la libertà di parola, il desiderio di convenire su ciò che poteva fare il bene della chiesa, rinnovarla, renderla più adeguata al compito ricevuto e al tesoro che le è affidato. Similmente si può sperare che l’esperienza di confrontarsi alla pari vescovi, presbiteri, laici, religiosi, religiose e laiche (per quanto sappiamo le percentuali fossero assolutamente sbilanciate sul fronte clericale e maschile) abbia lasciato un segno più che nei contenuti (ancora necessariamente solo abbozzati) nello stile ecclesiale.

I vescovi hanno tollerato di ascoltare credenti donne o hanno scoperto che questa può essere una risorsa? Chi ha partecipato al sinodo, pur nella fatica dell’impegno davvero oneroso, ha potuto gustare un’esperienza di chiesa multiforme, multicolore, varia e ricca, oppure ha solo aspettato che tutto passasse per tornare a difendere il proprio piccolo mondo antico? E le donne che erano presenti, si sono sentite caricate della responsabilità di dar voce a tutte le altre, tornando a casa con l’impegno di rinnovare alleanze sororali per aiutare la chiesa intera o si sono fatte lusingare dal sistema che le ha scelte fra tutte e si sono accontentate di questo?

Se la prassi sinodale ha fatto breccia nei cuori dei partecipanti e delle partecipanti, vedremo qualcosa accadere, vedremo che le indicazioni del Sinodo su tanti punti sensibili non verranno affossate nell’anno che deve venire, ma verranno invece riprese, discusse, rilanciate. Su tutte la questione delle donne perché ha una capacità trasformativa – come detto – unica e può portare con sé molti altri cambiamenti possibili e necessari. Non riprendo qui alcuni spunti che possono sembrare tecnici, ma che potrebbero davvero cambiare il volto ecclesiale (dal ruolo delle conferenze episcopali alla perplessità di ordinare vescovi i prelati di curia che non si curano di alcuna chiesa), brevemente, quasi come in una litania indico ciò che è stato detto ad alta voce sulla condizione delle donne nella chiesa: è stato detto ad alta voce, ha avuto credito, è entrato nel documento ed è stato approvato con la votazione di tutti. Io non minimizzerei.

Si è detto, scritto e condiviso che è necessario un maggiore riconoscimento delle donne, dei loro ministeri; che è opportuno riprendere in mano la questione del diaconato alle donne; che siamo ancora vittime di un sessismo imperante e pervasivo; si chiede di fare attenzione al linguaggio; si parla del coinvolgimento delle donne nei processi decisionali; si stigmatizza la discriminazione e gli abusi, molte volte richiamati.

Mancano molte cose, solo per fare qualche esempio minimale: non si ricordano le discepole, le annunciatrici, le leaders delle chiese domestiche; non si afferma che le donne (come invece si dice per i poveri) devono essere soggetti della loro emancipazione e della loro crescita; si è ancora timidi su temi che teologicamente non danno alcun problema. Nonostante questo, prassi sono state rinnovate, parole sono state dette e condivise, documenti sono stati scritti. Può sembrare poco, ma non lo è. Ora tocca a tutta la chiesa farsi carico della novità, prendere posizione per allargare la breccia nel muro o richiuderla. Se non ora, quando?

Simona Segoloni Ruta

La condizione delle donne nella chiesa tra prassi sinodale, stile ecclesiale e tensioni strutturali al cambiamento

Il sinodo dei vescovi che ha appena concluso la XVI sessione ordinaria ha come compito di pensare la chiesa in termini sinodali, e poiché la chiesa non è strutturata in termini sinodali – per la stragrande maggioranza dei responsabili ecclesiali non solo la parola ma anche i valori che ad essa soggiacciono erano del tutto estranei o periferici fino a dieci anni fa – il sinodo si ritrova il compito di ripensare la chiesa intera. Proprio per questo è al centro di tensioni e dibattiti, perché quelli che non vogliono in alcun modo la riforma denigrano o minimizzano o trovano qualsiasi altra strategia per frenare ogni pensiero, ogni dubbio, ogni possibile passo in avanti, mentre quelli che da tempo studiano e attendono cambiamenti, sono frustrati, affaticati, vorrebbero valorizzare i passi in avanti ma gli sembra di trovarsi sempre al punto di partenza. Su tutti il tema donne e la partecipazione pubblica delle donne alla vita della chiesa (ministeri, decisioni, responsabilità) è il pomo della discordia, perché una considerazione reale del battesimo e dei carismi delle donne farebbe venire meno moltissime delle strutture, delle prassi e delle dottrine clericali che sbilanciano l’intera chiesa in una direzione che non è quella del Vangelo. Poiché è così importante, dunque, poiché c’è in gioco molto più che dare qualche spazio anche alle credenti, si resiste fortissimamente. Inoltre quasi nessuno – certamente non gli uomini di chiesa – ha fatto i conti con le proprie rappresentazioni di genere, con i modelli introiettati, con le proprie paure e il proprio modo di pensarsi maschio (vale anche per le femmine ovviamente), e così molto spesso si proietta sulla volontà di Dio o sulla sua Parola [!] semplicemente il mondo che si vorrebbe, l’ordine stereotipato e oppressivo per le donne (e quindi per tutti) visto nell’infanzia o nella prima giovinezza. In conclusione sulle donne in genere e sulle donne nella chiesa si fa un’enorme fatica.

Però, c’è un però. Però, le donne ci sono e sono state anche al sinodo, sedute alla pari con tutti gli altri, con diritto di parola e di voto. Ciò che facciamo è capace di trasformare ciò che pensiamo e anche di rimettere in discussione identità e valori. Un uomo che si abitua a occuparsi dei propri figli può sentirsi meno maschio, rimanendo in un modello anaffettivo e irresponsabile del maschile, oppure può scoprire un modo di vivere la propria maschilità commisurato ai bisogni di quelli che ama e quindi, in ultima istanza, di se stesso. Le prassi modificano il nostro quadro di riferimento, il nostro orizzonte portando novità inattese.

La domanda potrebbe essere allora: perché mai fare prassi nuove? Perché non tenersi quelle che si allineano con i miei schemi e le mie rappresentazioni della realtà? Perché onestamente mi accorgo che quelle che ho non funzionano più, non fanno vivere altri, non liberano, non portano frutto. Per questo ci si ferma e cambia: per amore, per prendersi cura, per obbedienza alla realtà che ci parla e nella quale Dio ci parla chiedendoci conto delle vite che vanno perdute o che vengono soffocate.

Ed ecco da dove viene la nuova prassi del sinodo, ecco da dove sorgono le tante domande sulla struttura ecclesiale e sulle relazioni ecclesiali, ecco perché i tentativi di spostare qualcosa. Queste domande hanno portato al ripensamento del sinodo dei vescovi (che già all’inizio con Paolo VI era un ripensamento del ministero petrino) nella direzione di un processo sinodale capace di coinvolgere le chiese. In concilio, ciò che ha spinto verso una novità che nessuno – ma proprio nessuno – immaginava prima, è stata la prassi conciliare, il modo in cui il concilio è stato condotto, l’incontro reale, lo scontro, la libertà di parola, il desiderio di convenire su ciò che poteva fare il bene della chiesa, rinnovarla, renderla più adeguata al compito ricevuto e al tesoro che le è affidato. Similmente si può sperare che l’esperienza di confrontarsi alla pari vescovi, presbiteri, laici, religiosi, religiose e laiche (per quanto sappiamo le percentuali fossero assolutamente sbilanciate sul fronte clericale e maschile) abbia lasciato un segno più che nei contenuti (ancora necessariamente solo abbozzati) nello stile ecclesiale.

I vescovi hanno tollerato di ascoltare credenti donne o hanno scoperto che questa può essere una risorsa? Chi ha partecipato al sinodo, pur nella fatica dell’impegno davvero oneroso, ha potuto gustare un’esperienza di chiesa multiforme, multicolore, varia e ricca, oppure ha solo aspettato che tutto passasse per tornare a difendere il proprio piccolo mondo antico? E le donne che erano presenti, si sono sentite caricate della responsabilità di dar voce a tutte le altre, tornando a casa con l’impegno di rinnovare alleanze sororali per aiutare la chiesa intera o si sono fatte lusingare dal sistema che le ha scelte fra tutte e si sono accontentate di questo?

Se la prassi sinodale ha fatto breccia nei cuori dei partecipanti e delle partecipanti, vedremo qualcosa accadere, vedremo che le indicazioni del Sinodo su tanti punti sensibili non verranno affossate nell’anno che deve venire, ma verranno invece riprese, discusse, rilanciate. Su tutte la questione delle donne perché ha una capacità trasformativa – come detto – unica e può portare con sé molti altri cambiamenti possibili e necessari. Non riprendo qui alcuni spunti che possono sembrare tecnici, ma che potrebbero davvero cambiare il volto ecclesiale (dal ruolo delle conferenze episcopali alla perplessità di ordinare vescovi i prelati di curia che non si curano di alcuna chiesa), brevemente, quasi come in una litania indico ciò che è stato detto ad alta voce sulla condizione delle donne nella chiesa: è stato detto ad alta voce, ha avuto credito, è entrato nel documento ed è stato approvato con la votazione di tutti. Io non minimizzerei.

Si è detto, scritto e condiviso che è necessario un maggiore riconoscimento delle donne, dei loro ministeri; che è opportuno riprendere in mano la questione del diaconato alle donne; che siamo ancora vittime di un sessismo imperante e pervasivo; si chiede di fare attenzione al linguaggio; si parla del coinvolgimento delle donne nei processi decisionali; si stigmatizza la discriminazione e gli abusi, molte volte richiamati.

Mancano molte cose, solo per fare qualche esempio minimale: non si ricordano le discepole, le annunciatrici, le leaders delle chiese domestiche; non si afferma che le donne (come invece si dice per i poveri) devono essere soggetti della loro emancipazione e della loro crescita; si è ancora timidi su temi che teologicamente non danno alcun problema. Nonostante questo, prassi sono state rinnovate, parole sono state dette e condivise, documenti sono stati scritti. Può sembrare poco, ma non lo è. Ora tocca a tutta la chiesa farsi carico della novità, prendere posizione per allargare la breccia nel muro o richiuderla. Se non ora, quando?

Simona Segoloni Ruta