Dio non si stanca

16
Apr

Presentazione dell’ultimo libro di Stella Morra sul tema della misericordia

Venerdì 12 febbraio Presenza Donna, in collaborazione con il Centro Culturale San Paolo, ha proposto al numerosissimo e attento pubblico un incontro con la teologa Stella Morra, che ha dialogato con don Dario Vivian a partire dal suo ultimo libro Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale (EDB, 2015). Docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana e di teologia sacramentaria fondamentale al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, vicepresidente del CTI, da anni cara amica della Congregazione e dell’Associazione, Stella Morra ha scritto un libro intenso e coinvolgente, in cui la misericordia, sulla scia di indicazioni e gesti di papa Francesco, è assunta come “categoria generatrice” per dare forma al pensiero teologico e soprattutto alla pratica cristiana. Un libro che apre percorsi di studio e confronto, un programma di lavoro a cui ciascuno può in qualche misura partecipare. L’intento del libro è “mostrare la fecondità dell’immaginare una forma di visibilità e vivibilità della fede cristiana sotto la prospettiva di una diversa categoria generatrice: la misericordia”.

Durante l’incontro, la teologa ha chiarito anzitutto che “la forma è esattamente il luogo dove le cose sono vivibili e visibili. Nessuno di noi incontra ‘un altro’; noi incontriamo il suo corpo, le sue parole, la sua faccia, cioè la sua forma. E il cristianesimo ha bisogno di una forma perché crediamo in un Dio che ha preso forma in Gesù Cristo, un Dio che si è incarnato. Già solo questo basterebbe per dire che abbiamo bisogno di una forma. Ne abbiamo bisogno anche per un altro motivo, più concreto, e cioè per non stancarci tanto, per vivere in modo ‘sciolto’ la nostra fede. Perché se ogni volta ciascuno di noi, su ogni singola decisione, deve rifare tutto il percorso e decidere che cosa è cristiano e che cosa no, e perché e per quali motivi, oltre ad aver bisogno di tre-quattro lauree e di quindici giorni per ogni decisione, alla fine è molto stanco, perché non riesce ad avere quel

sapere pratico

che fa la vita”. “I cambiamenti di forma sono i cambiamenti di portata storica medio-lunga, non sono l’acquisizione dell’ultima novità per cui oggi invece di mandare il ciclostilato uso twitter. I cambiamenti di forma sono cambiamenti molto lunghi e che, altro aspetto importante, non si fanno per decreto. I cambiamenti di forma si fanno sempre in un intreccio tra chi li esplicita (teologi, vescovi, ecc.) e la vita credente che li digerisce oppure no”.

Portando ad esempio molti problemi che sempre più concretamente e diffusamente emergono nella vita di fede cristiana, Stella Morra ha sottolineato che “questo è il tempo della salvezza che ci è stato dato, però bisogna essere consapevoli che è un tempo di una grandissima transizione. Una trasformazione per cui tra cento anni, se qualcuno di noi potesse esserci ancora, probabilmente non riconoscerebbe più il cristianesimo dal punto di vista delle pratiche quotidiane. Cose che oggi ci sembrano eterne e immutabili spariranno. Spariranno. E nella sostanza non cambierà niente”. Un esempio su tutti, la territorialità del cristianesimo, che ha funzionato bene per moltissimo tempo ma che oggi, con le grandi libertà di spostamento a nostra disposizione, non può più reggere. “Abbiamo due possibilità: insieme alla territorialità far saltare anche il cristianesimo (e se continuiamo a ignorare il cambiamento faremo così, facendo finta che non è cambiato niente finché sparisce tutto), oppure capire che dobbiamo trovare un’altra forma. E vicino alla forma che ancora funziona (e dove funziona facciamola andare avanti, niente di male) cominciare a immaginare degli altri modi che possano funzionare insieme, a fianco. Non è la sostanza che cambia, Cristo e il Vangelo non cambiano, ma cambiamo noi! E quindi noi abbiamo bisogno di ritrovare un modo sciolto, elementare, semplice, di essere cristiani senza dover pensare ogni gesto. Per fare questo abbiamo bisogno di luoghi, persone, tempi, modi, organizzazioni che devono in qualche modo saper cogliere la novità. In un tempo di transizione come questo, l’unica cosa che non si può fare è far finta che non sia cambiato niente”.

Sollecitata dalle domande di don Dario Vivian, la teologa ha poi fornito alcuni chiarimenti terminologici rispetto alla logica della complessità (“complesso non è il sinonimo di complicato. Così come l’aspirazione non è al semplice, ma all’elementare. Ed è diverso: ci sono molte cose nella nostra vita che non sono per niente semplici, ma sono assolutamente elementari, cioè ridotte a una struttura fondamentale”) e chiarito che un grande segno rimane Vaticano II (“il grande regalo è che ci è capitato un vescovo di Roma che è il primo papa che non ha partecipato a Vaticano II ma forse è il primo papa che ha preso sul serio Vaticano II. Quindi non lo cita ma lo fa funzionare, l’ha rimesso in moto”).

L’idea della misericordia come categoria viene naturalmente da Francesco, che sta facendo molto con un’enorme fiducia nel popolo di Dio (“scopriamo che non possiamo più lamentarci dei preti ma che ci tocca fare i battezzati. Francesco tutto quello che fa lo fa supponendo di avere difronte un popolo che bene o male risponde, che barcolla ma che risponde”) e operando un capovolgimento decisivo: “per mille anni essere cristiani è stato uguale ad aderire ad una dottrina. Anche noi oggi dicendo ‘sono credente, non sono credente’ mediamente intendiamo ‘sono d’accordo con alcune affermazioni: Gesù è vero Dio e vero uomo, Gesù e resuscitato’. Quindi alla fine identifichiamo la fede con una dottrina. La dottrina identifica il cristianesimo. Un capitolo di questa dottrina è la misericordia, poi c’è un altro capitolo che è la giustizia, poi un capitolo è il peccato, eccetera. Francesco sta facendo questo rovesciamento elementare: il cristianesimo non è uguale a una dottrina ma è fare l’esperienza di ricevere misericordia da Dio; nemmeno riconoscerla, ma farla. La dottrina ha un suo posto, è importante, ha un ruolo, ma è uno strumento della misericordia”.

Un rovesciamento radicale, con notevoli sviluppi: “il cambiamento non è solo una cosa romantica in cui siamo tutti un po’ più buoni, ci perdoniamo. Per esempio cambia completamente la definizione di essere credente o no. Perché essere credente vuol dire essere uno che ha fatto l’esperienza di misericordia, che quindi sa qualcosa del proprio male, dell’esperienza di male che ciascuno di noi è in grado di fare. Questo vuol dire saper affidarsi all’esperienza elementare del fatto che c’è qualcuno che può guardarci in un modo che cura il nostro male. Secondo questa logica essere cristiano vuol dire aver fatto almeno una volta l’esperienza della misericordia ricevuta. Per questo poi Francesco dice che la chiesa è un ospedale da campo. Un posto dove chi è ferito trova misericordia. Cosa dobbiamo fare? Dare misericordia. Essere un luogo, un tempo, delle persone che fanno e facilitano l’esperienza della misericordia”.

Prima del dibattito, spazio ad alcune coordinate per sperimentare questa prassi di misericordia. Tra le “operazioni” presentate nel libro ricordiamo qui l’inclusività. “La misericordia funziona che se tu o io sappiamo di aver bisogno di misericordia e la riceviamo siamo contenti, ma se non sappiamo di averne bisogno abbiamo il doppio del diritto di riceverla. Non c’è modo di restarne fuori! La misericordia funziona come categoria inclusiva, che non costituisce un confine ma che risponde alla nostra grande esigenza di trovare una struttura elementare che ci unisca, che faccia riconoscere gli uni gli altri”.

A cura di Enrico Zarpellon

 

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