“Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…” (Gv 15,7): il centro della vita cristiana
Al tempo di Gesù ogni ebreo pregava almeno due volte al giorno: alle nove del mattino, il momento in cui si faceva l’offerta al tempio, e alle quindici del pomeriggio. Molte preghiere erano conosciute a memoria, come alcune frasi dei Salmi che spesso segnavano i momenti della giornata anche nel parlare comune e nelle situazioni particolari. Per non parlare, poi, dei riti e delle tradizioni del sabato e delle feste. Ciò nonostante, durante la vita pubblica di Gesù, i suoi discepoli gli chiedono di insegnare loro a pregare ed è in quella occasione che Gesù pronuncia le parole che indichiamo con il Padre nostro, quel rivolgersi all’abbà, il papà, dove le cose fondamentali sono la richiesta di veder realizzata la volontà di Dio e la capacità di perdonare.
Gesù tornerà più volte sull’inutilità di sprecare parole, formule e frasi o di chiedere a Dio delle cose, quando egli sa bene quali sono quelle di cui abbiamo bisogno (Mt 6,8). Nello stesso tempo, però, invita a pregare sempre, senza stancarsi. Gesù ci invita a pregare, ma non ci dice chiaramente con quale modalità, forse proprio perché anche la preghiera, nell’esistenza di ogni credente, deve trasformarsi, diventare viaggio, cammino, andare più in profondità, crescere “diminuendo” per raggiungere una semplicità che è punto di arrivo e non di partenza: “Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per trovare quelle poche che ci sono necessarie” (Etty Hillesum).
Dopo qualche secolo dall’esperienza di Gesù siamo di nuovo in una situazione di tante parole, di frasi più o meno standardizzate, che se possono essere utili in alcune fasi della vita spesso non sono segno di una fede adulta e, soprattutto, portano con sé il rischio di pensare a un tempo ben definito, esclusivo, per pregare, un tempo in cui sospendere tutto il resto – la vita? – cercando condizioni di silenzio, concentrazione, solitudine che sono così difficili da creare nell’esistenza della maggioranza delle persone. Inoltre, nella tradizione di molti di noi, la preghiera è legata a una penitenza dopo la confessione, dove il numero delle recitazioni era causato dalla quantità o gravità dei peccati.
Se questo ci porta a dire che non abbiamo tempo per pregare, che la quotidianità della vita ci distoglie dalla preghiera, vuol dire che qualcosa non funziona, perché la vita cristiana è la vita ordinaria, e la preghiera non può essere tempo al di fuori, ma tempo incarnato, una vita che si fa preghiera.
“Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…” (Gv 15,7). Dimorare in Gesù e lasciare che egli rimanga in noi: è questo il centro della vita cristiana; ascoltare le sue parole, accogliere la sua storia, il suo agire nella storia perché queste parole e queste scelte diventino il nostro modo di pensare e di agire. Lasciare che la nostra vita si trasformi perché ogni incontro che facciamo, ogni evento che viviamo, i momenti di gioia o di difficoltà sono abitati da Dio.
Riconoscere che, proprio per questo, anche la nostra preghiera si trasforma, diventa storia, perché ci pensa la vita, con le sue circostanze concrete, a cambiare l’orizzonte della preghiera: le gioie più grandi, le feste, le nascite… così come le preoccupazioni, le malattie, i dubbi, le morti, non sono “fuori”, non sono incidentali, ma diventano preghiera, anche se è semplice parola, se è ruah, spirito, respiro. “Dove sei mio Dio? Cosa posso fare?”. Cosa posso fare io, perché la preghiera cambia me, non Dio; e se permetto al Signore di abitare in me, cresce la mia capacità di amare, divento più autenticamente umana e magari arrivo a comprendere che “Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste, bensì le sue promesse” (Dietrich Bonhoeffer).
Se le sue parole rimangono in me, io sono al sicuro e posso ripetermelo più volte durante il giorno, posso affidargli tutto con una parola, posso pregare sempre e arrivare a sera:
“Penso… che ogni sera debba esserci un gesto di docilità e distensione: lasciar andare il giorno, con tutto ciò che c’era dentro. E darsi pace proprio con tutto ciò che durante il giorno non si è riusciti a portare a buon fine, sapendo che viene ancora un giorno. Si dovrebbe, per modo di dire, ritrovarsi distesi nella notte con mani vuote, aperte, dalle quali volentieri si sia lasciato il giorno scivolare via. Solo dopo si può veramente riposarsi. E in quelle mani riposate e vuote, che nulla hanno voluto trattenere e nelle quali non c’è più alcuna bramosia, si accoglie, al risveglio, un nuovo giorno” (Etty Hillesum). Così anche la notte diventa preghiera.
Donatella Mottin