Pubblichiamo l’intervista a sr. Rita Giaretta firmato da Carola Susani e scritto per Donne Chiesa Mondo, allegato mensile de L’Osservatore Romano.
E viceversa. Come fa suor Rita aiutando donne vittime di tratta
«C asa Rut l’hanno fatta loro»; suor Rita Giaretta intende le giovani donne che abitano la casa. Casa Rut ha la sua sede a Caserta, è nata per volontà delle Suore Orsoline del Sacro Cuore di Maria di Breganze. Suore vicentine che si sono mosse verso Sud. È una struttura di prima accoglienza per donne, sole o con bambini, che sono state vittime della tratta della prostituzione e che ora riprendono in mano la propria vita. Sul sito c’è scritto: «Qui la giovane donna migrante, anche con figli, trova uno spazio “caldo”, “b ello” e familiare dove poter iniziare un cammino individualizzato di protezione, di liberazione». Nessuna delle parole è casuale: caldo, bello, familiare, liberazione. Ogni scelta, a Casa Rut, anche
quella di un vocabolo, è concreta e simbolica insieme. Suor Rita Giaretta, ex infermiera ed ex sindacalista Cisl, di Casa Rut è stata una
delle fondatrici. «Erano gli anni Novanta»; ha una voce chiara, la pronuncia autorevole, l’accento veneto, «abbiamo scelto Caserta. C’era
stato l’incendio di Villa Literno, era stato da poco ucciso don Peppe Diana. A Caserta, poi, c’era il vescovo Raffaele Nogaro, un grande vescovo
e un grande pastore. Siamo andate in due, due suore. I primi mesi sono stati di ascolto. Non avevamo progettato prima, i progetti non devono cadere dall’alto, belli e pronti, la realtà li manda all’aria. Ci aspettavamo ci fossero mezzi pubblici, e invece no; così abbiamo preso le biciclette. In bicicletta abbiamo cominciato ad allenare lo sguardo. Poi anche in macchina.
Ci siamo messe a girare appoggiando lo sguardo. E abbiamo visto le ragazze, nere e dell’est, su viale Carlo Terzo, sulla provinciale per Benevento, sulla Domiziana. È stato un pugno nello stomaco.
E quelli con cui parlavamo, la Questura, le forze dell’ordine, sollevavano le spalle, «Eh, il mestiere più antico del mondo».
Ci dicevano: «Siete suore, state al vostro posto ». Sì, ma qual era il nostro posto? Volevamo capire. Dovevamo andar fuori dagli stereotipi. Abitare le domande. Abitando le domande nasce l’esigenza di andare oltre. Così l’8 marzo siamo andate sulla strada a portare un fiore che durasse, abbiamo portato vasetti di primule. Un fiore reciso lo butti, una piantina è viva, ti chiede reciprocità. Avevamo un po’ di timore. Abbiamo preso una macchina e siamo andate. Vedendo una macchina di donne, alcune ragazze si spaventavano, si riparavano. E noi avanzavamo piano piano, scambiavamo con loro qualche parola in inglese. Consegnavamo le piantine. Poco alla volta dalla paura passavano alla commozione.
Insieme alla piantina consegnavamo un messaggio d’augurio in tre lingue. Avevamo voglia di guardarci, noi in macchina e loro dalla strada, di abbracci, a poco a poco scoppiava la gioia. E via via che andavamo avanti ci dicevano: «Tornate, tornate!». Abbiamo detto a ciascuna di loro: ci saremo ogni mercoledì, e siamo state di parola. Siamo state fedeli, e la fedeltà ci ha ripagato. Portavamo la Bibbia, i Vangeli. Sono state loro ad aiutarci a parlare di schiavitù.
Un mercoledì: «Help me, help me — sentiamo gridare, Faith ci sale in macchina — non buono questo lavoro». Cosa potevamo fare? L’abbiamo
fatta salire, le abbiamo trovato una sistemazione.
«Così è nata l’idea di Casa Rut». È una struttura piccola, Casa Rut, ma fertile, ha fatto molto parlare di sé, su quell’esperienza suor Rita ha scritto vari libri: Non più schiave, il coraggio di una comunità, pubblicato da Marlin nel 2007, Osare la speranza, la liberazione viene dal sud (insieme
a Sergio Tanzarella), e ancora: Accendiamo la speranza. Comunità di donne su sentieri di libertà, pubblicato l’anno scorso dal Pozzo di Giacobbe.
«Una cosa ci era chiara: i poveri devono andare in centro, se rimani in periferia non avrai mai un’opportunità. Volevamo un condominio, un posto dove fosse possibile una vita normale. Non è stato facile: i condòmini erano preoccupati, vedevano già arrivare file di macchine.
Anche a loro dovevamo dare il tempo di conoscerci. C’era un bell’atrio, e lì abbiamo messo la terra, piantato fiori. Suore e ragazze insieme rendevano bello l’ambiente. Credo in questi miracoli. A un certo punto suonano al campanello per cercare una babysitter. Ci dicono: “Ci fidiamo, abbiamo capito chi siete, abbiamo visto queste ragazze”. Sono processi di accompagnamento». Il primo obiettivo è quello di restituire un’identità a chi se l’era vista sottrarre.
Insieme a Caritas, Migrantes e altre organizzazioni fanno pressione perché nella legge Turco-Napolitano sia inserito l’articolo 18, che permette a chi fugge da una condizione di sfruttamento di avere il permesso di soggiorno sia che denunci sia che non denunci. «Ci siamo rese conto di quanto fosse importante che tutto quel che facevamo avesse anche una forza simbolica: per esempio, abbiamo capito che bisognava dare sempre vestiti nuovi, cose belle», la bellezza risveglia la bellezza. «Dovevamo liberare il nostro sguardo, hai davanti Blessy, hai davanti Vera, non delle poverine. Queste ragazze mi hanno evangelizzato. Ci hanno aiutato a uscire da un femminile ingessato e ci hanno permesso di entrare nella libertà». Poi è arrivato il tempo di fare ancora un passo, e insieme le ragazze e le suore hanno fondato la Cooperativa sociale NeWhope. «Perché finché sei nell’accoglienza, il potere ce l’hai tu. Invece devi lasciare che le persone si rimettano in piedi. Gesù quando libera, rimette in piedi». Da diciassette
anni c’è la Cooperativa, con il laboratorio di sartoria. Ha in piedi sette contratti di lavoro, anche con due ragazze casertane disabili. «Ci teniamo ai simboli: con gli scarti al laboratorio si fa un bellissimo fiore che esemplifica il motto: non c’è scarto che non può fiorire. E oltre al fiore, c’è un altro oggetto simbolico: il grembiule del servizio. L’abbiamo mandato a tutti i politici. L’abbiamo mandato ai sacerdoti, ai vescovi. Per ricordar loro che cosa il ruolo di responsabilità richiede: Siete chiamati a servire». Da Casa Rut sono passate seicento persone. Poche alla volta, per mantenere la giusta misura. «Se sei piccolo, sei in grado di mettere al centro le persone». In questi tempi difficili, di paura e senso di assedio, suor Rita ricorda un’evidenza: «Come tutti i tempi, anche i più difficili possono essere una opportunità. Simone Weil lo dice, ciò che salva è lo sguardo. Lo sguardo rasserena: io ci sono, tu ci sei: dobbiamo abitare la speranza». Per come lo dice “abitare la speranza” sembra una cosa semplice, naturale più che
re s p i r a re .