Le donne curatrici al tempo della peste
“Richiamo alla mente i tanti amici perduti e i loro affettuosi colloqui, gli abbracci e l’improvviso svanire dei loro dolci volti e i cimiteri che ormai non bastano alle continue sepolture. Questi lutti geme il popolo italiano, questi piange la Francia stremata, questi tanti altri popoli sotto qualsiasi cielo abitino. O sia ira di Dio o, come credo, soltanto rovina che viene a noi per il variare delle vicende naturali, trepido mentre così sto meditando (ve lo confesso) e sento l’insidia della malattia e della morte vicina. Né mare né terra né alte vette di monti mi mostrano dove potrei nascondermi fuggendo; poiché ovunque il male arriva, che irrompe anche nei nascondigli che noi sentiamo più sicuri”. È di stringente modernità la dolente, intima riflessione con cui Francesco Petrarca confida il sentimento di smarrimento che lo pervade nelle prime settimane in cui dilagava in tutti i Paesi quella che è considerata la più devastante pandemia abbattutasi sull’Europa, non a caso contrassegnata con lo stesso colore della morte: la peste nera. Il poeta non descrive, non analizza dati, non indaga: preferisce dialogare con se stesso, leggersi dentro, scoprire con un misto di meraviglia e angoscia la sua fragilità che è la stessa fragilità di un’intera epoca. Negli anni tra il 1347 e il 1350 più di un terzo della popolazione europea viene spazzata via, interi villaggi cancellati per sempre, città dimezzate, campi e attività abbandonati. Qualcosa per noi inimmaginabile: secondo studi recenti, tutte insieme le vittime militari e civili della Prima e Seconda Guerra Mondiale rappresentano solo una piccola percentuale, forse il 5%, rispetto ai morti dell’epidemia. È un’immane tragedia che proietta la sua ombra di morte sulla vita di ogni giorno, i sospetti si insinuano tra gli stessi membri delle famiglie, si scatenano selvagge caccie ai colpevoli e scontri sociali, di cui gli ebrei sono spesso le vittime sacrificali. L’arte, la letteratura, la religiosità, la vita sociale, la medicina, l’economia ne escono profondamente mutate. È un’intera epoca ad essere travolta.
Ho visitato più volte la Pinacoteca di Siena: ci sono tornata l’estate scorsa. Sarà stata la suggestione della pandemia che stiamo vivendo, ma mi ha colpito un dettaglio mai notato prima. Mi soffermo ammirata nelle splendide sale dedicate a due grandi pittori come i fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti e osservo che per tutti e due la data di morte è la stessa: 1348. Ma mi ha colpito ancor di più il passaggio nella sala successiva: le prime opere d’arte sono datate ai primi anni del Quattrocento: 50 anni di vuoto! Ho provato un tuffo al cuore. Morta anche la bellezza, distrutta l’armonia… sembra il trionfo della Danza Macabra, indimenticabile scena finale di quel capolavoro del cinema che è Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ma la vita, tuttavia, ritorna. E la percezione della fragilità umana nel giro di poco tempo si trasforma in una urgente ricerca di nuove forme di assistenza e di cura. Cura in molteplici accezioni: come ricerca di farmaci con cui difendersi dalla malattia e come attenzione nei riguardi dei malati, degli abbandonati, dei provati nel corpo e nello spirito, come provvedimenti per prevenire e bloccare la diffusione di simili flagelli.
Cura coniugata al femminile. Una giovane studiosa, Erika Maderna, in due libri di recente pubblicazione focalizza in modo affascinante il problema: Per virtù d’erbe e d’incanti. La medicina delle streghe e Con grazia di tocco e di parola. La medicina delle sante. Se fin dai tempi più antichi alcune pratiche mediche, soprattutto legate ai problemi femminili, erano di esclusiva competenza femminile, sia pure relegate in un limbo magico osservato con diffidenza, è proprio nel tardo medioevo che “esplode” la medicina delle donne. E contemporaneamente, e proprio in coincidenza con le epidemie di peste, inizia anche la caccia alle streghe. La donna curatrice, cioè, vive di quel dualismo con cui per secoli l’Europa cristiana ha visto la donna: o Eva peccatrice o Maria redentrice. Pericolosa e discepola del demonio se la sua attività si svolge in un ambito autonomo rispetto alle norme della società e della Chiesa: formule magiche, riti propiziatori, pratiche empiriche; santa se la sua attività si svolge in un ambito “sacro”: o in un monastero o in un luogo di cura comunque sotto tutela maschile e in armonia con le prescrizioni sociali e religiose. Eppure sante e streghe attingono a una radice comune di conoscenze che vengono dalla tradizione orale, il loro interesse, lungi dall’essere mosso da interessi “professionali” viene da quella “vocazione” tutta femminile del prendersi cura, non legata solo al fatto di essere madre, ma anche alla percezione di fragilità che sempre ha aleggiato intorno al sesso femminile.
In ogni caso è proprio la dimensione religiosa a consentire alle donne di essere presenze attive e vitali in ambito medico, soprattutto se il loro sapere si coniuga con la vocazione religiosa, con una specificità tutta speciale: l’attenzione al legame prezioso fra salute, bellezza, benessere, senza mai togliere centralità al corpo… e sono le prime a cogliere lo stretto legame fra salute fisica ed emozionale. L’eccezionale figura di Ildegarda di Bingen ne è l’esempio più eclatante. Sono loro, scrive con un’immagine suggestiva Erika Maderna, “ad attingere all’immenso sapere farmacologico, gastronomico e cosmetico con amore e intuizione, spezzando il pane quotidiano di un’esistenza spesa nella ripetizione dei riti dell’assistenza e della cura”. Insomma la cura come forma sublimata di sacerdozio. Quando finalmente la bellezza delle forme e dei colori tornerà a splendere sulle pareti di chiese e di edifici pubblici e privati, la donna apparirà spesso come curatrice, in prima fila nelle nuove forme di assistenza, che proprio con le tragedie delle grandi epidemie fioriscono nelle città.
Dalle città dell’Italia al nord dell’Europa, in ambienti e contesti politici ed economici anche molto differenti, il ruolo femminile nell’ambito della cura dei bisognosi e dei malati si affianca alla più tradizionale assistenza al parto e all’attività di balia. Si può senz’altro affermare che gli albori dello stato sociale, tutt’ora uno dei tratti specifici del nostro continente, hanno un’importante componente femminile, anche se per molto tempo trascurata dagli studi. Nelle Confraternite della misericordia, negli ospizi, nei conventi, nei beghinaggi, nei pellegrinai, nei francesi e fiamminghi Hotel Dieu, perfino nei successivi lazzaretti l’apporto femminile diventa indispensabile.
Parallelamente si diffonde il culto delle sante invocate per ogni tipo di malattia: donne fragili, spesso sottoposte ad atroci supplizi, diventano vere e proprie “dottoresse” specialiste nelle varie branche della medicina: santa Lucia è invocata per le malattie degli occhi, santa Apollonia per i denti, sant’Agata per le patologie del seno, Elisabetta per la sterilità, Barbara per le morti improvvise, santa Rosalia, assieme a Rocco e Sebastiano sono i santi invocati contro la peste, santa Rita la santa dei casi impossibili. Le immagini sono le testimonianze più sicure di questa presenza e coprono in gran parte la poca documentazione di fonti scritte: colpisce la tenerezza e la precisione dei gesti con cui sono affaccendate nel momento del parto e dell’allattamento. Credo, però, che colpisca ancora di più la differente tipologia di cura che le vede impegnate: l’igiene dei malati infetti e contagiosi (lebbrosi e appestati) con il bagno dentro le tinozze, l’attiva e numerosa presenza presso i letti di un ospedale dove anche le ragazze vengono istruite all’assistenza, la premura con cui imboccano gli infermi e aprono le porte ai bisognosi. E non è fantasia immaginare che i gesti delle mani siano accompagnati da parole incoraggianti, da sorrisi rasserenanti, da carezze amorevoli. Si riconoscono le religiose con la veste nera, il velo bianco delle sposate o delle vedove. Coraggio, organizzazione, dolcezza, determinazione. Prendersi cura di chi è fragile in una società che comincia ad accorgersi di essere fragile e della presenza dei fragili. Certo, non sembrano le donne ad essere fragili!
Chiara Magaraggia