Quando la vita in comunità è… musica per le orecchie!
Sto camminando nella Foresta Casentinese attorno a Camaldoli. È mattina e il sole penetra allegro fra il verde dei castagni, degli abeti, delle querce, dei lecci, che appaiono illuminati a metà, lasciando ancora in ombra i tronchi. Tutto è silenzio, interrotto solo dallo scroscio argentino del torrente Archiano che corre verso valle per gettarsi poi nell’Arno. Il sentiero che porta all’eremo è ripido e mi accompagno col bastone che scandisce il mio cammino. Il rumore dei passi diventa sempre più ritmato e sintonizzato col respiro e ad un tratto mi trovo spontaneamente a declamare ad alta voce i versi con cui il “mio” Dante descrive questi luoghi: “… a piè del Casentino / traversa un’acqua che ha nome Archiano / che sovra l’Ermo [l’Eremo di Camaldoli] nasce in Appennino”. È emozionante essere in questi stessi luoghi, salire questo pendio immerso nella pace della foresta, ma così vicino alla piana dove si è svolta nel Medioevo una crudele battaglia fratricida. Altrettanto emozionante è sperimentare che il ritmo del mio passo è in perfetta sintonia con il ritmo del verso dantesco e intuire come la poesia antica e medievale, il canto e la preghiera popolare debbano moltissimo al cammino lungo e ritmato di viandanti e pellegrini, che nel passato hanno così riaperto i confini dell’Europa. Mi viene in mente il libro Il filo infinito, in cui l’autore, Paolo Rumiz, muovendosi di monastero in monastero, si pone sulle orme dei monaci di San Benedetto: “Uscimmo sulla piazza principale [di Norcia]. Dietro il rosone della cattedrale la navata non c’era più. Fu lì che vidi la statua, illuminata al centro della piazza. Mostrava un uomo dalla barba venerabile e dalla larga tunica, sollevava il braccio destro come per indicare qualcosa fra cielo e terra. Era intatta in mezzo alla distruzione e portava la scritta San Benedetto, patrono d’Europa. Fu un tuffo al cuore. […] Cosa diceva quel santo benedicente, in mezzo ai detriti di un mondo? Diceva che l’Europa andava in malora? […] Ma l’incolumità della statua ricordava che uomini come quelli erano riusciti a salvare l’Europa senz’armi, con la sola forza della fede. Con l’efficacia di una formula: ora et labora. Lo avevano fatto quando le invasioni erano una cosa seria, non una migrazione di diseredati”.
La regola dettagliata e prescrittiva, la preghiera e il lavoro, la meditazione individuale e comunitaria sulla Scrittura, il ritmo del sonno e della veglia e la scansione del tempo, la trascrizione dei testi antichi e la creazione delle biblioteche, la bonifica del terreno e il recupero dell’agricoltura, la coltivazione e lo studio delle erbe officinali per la cura del corpo, la vite e il grano piantati ovunque perché necessari alla celebrazione dell’Eucarestia, il canto corale dei salmi che farà fiorire il Gregoriano: è un vero e proprio programma di vita e di civiltà, che ricostruisce l’uomo recuperandone il baricentro interiore, ma – e qui sta la novità rispetto al monachesimo solitario degli anacoreti orientali – ricrea il senso e la positività della vita comunitaria. Una vita scandita sette volte al giorno dalla preghiera collettiva, che farà della puntualità – come sottolinea Rumiz, “una importante virtù civica tutta europea, intesa come prima forma di rispetto della comunità”. Il rapporto con Dio si attua anche nel rapporto con gli altri, nella creazione di un piccolo mondo organizzato e armonico: il monastero, che può diventare la cellula di una società civile che ha smarrito la sua identità e il senso dell’antica polis, dove la democrazia si attua nell’elezione collegiale dell’abate, a cui tutti i monaci, senza distinzione, partecipano. Una cittadella, dove le porte sono sempre aperte all’ospitalità: “Tutti gli ospiti siano accolti al loro arrivo come fossero Cristo, poiché egli dirà: «Ero forestiero e mi avete ospitato» e a tutti si renda il dovuto onore. […] Quando viene annunciato un ospite, il superiore e i confratelli gli vadano incontro con tutte le attenzioni dettate dalla carità. […] L’abate stesso con l’intera comunità lavi i piedi agli ospiti” (cap. 53 della Regola di san Benedetto).
Leggere la Regola ci mette oggi in crisi, ottusamente chiusi in un egoismo che sta assumendo dimensioni devastanti. Eppure… basta sperimentare oggi l’ospitalità monastica – non solo benedettina – per comprenderne la luminosità e l’attualità.
Siviglia, 31 dicembre 2015, ore 21. Preparativi di Capodanno ovunque, con quella carica vitale e contagiosa che hanno gli spagnoli. I negozi hanno già chiuso, la gente sembra fibrillare, dirigendosi verso il luogo della festa collettiva. Nella splendida piazza dove si affaccia una fiancata della sfarzosa cattedrale si apre la porta di una piccola chiesa. Io e la mia amica siamo incuriosite nel vederla ancora aperta ed entriamo: è il monastero di clausura de La encarnación, meglio conosciuto come Santa Marta, dove vive una piccola comunità di monache agostiniane. Sta per iniziare il Te Deum di fine anno. Noi, con un piccolo gruppo di persone in chiesa, da questa parte della grata, sotto il barocco retablo ligneo dell’annunciazione, loro, di là, con la veste nera e il largo collare bianco. Canti e preghiere si alternano: che strano sentire la lentezza con cui le parole vengono scandite, tanto che ne comprendiamo perfettamente il significato, così differente dalla fretta scoordinata con cui normalmente si partecipa ai riti, quasi ansiosi di finire presto! È un ritmo che in modo naturale appaga la mente e tranquillizza lo spirito: è l’armonia al posto della frenesia. Ma la cosa più bella avviene alla fine: si apre la porta centrale della grata e siamo invitati a baciare la statua di un sorridente Bambinello tenuto in braccio da una monaca. Intanto le consorelle prendono nacchere, cembali e tamburelli e iniziano a cantare, muovendosi con leggeri movimenti di danza: giovani e anziane, sorridenti, tutte insieme! La musica e il ritmo contagioso della Spagna entrano nella clausura. È un momento di emozionante condivisione. E non è finita: il festeggiamento non è completo senza un tocco squisitamente femminile: l’offerta dei dolcetti della cui ricetta le monache sono le gelose custodi. È il momento in cui le grate spariscono, siamo un’unica amichevole comunità: ci si saluta, ci si presenta, ci si dà la mano, ci si scambia gli auguri. È un Capodanno che non posso dimenticare… ancora adesso ne sento la dolcezza e il sorriso. Un sorriso che subito ne tira un altro.
Questa volta io e Maria Teresa siamo per pochi giorni al monastero del Monte Oliveto maggiore, ospiti della comunità dei benedettini olivetani. Il luogo è magnifico: una folta macchia verde di cipressi situata tra le Crete senesi e la Val d’Orcia, patrimonio Unesco. Un paesaggio frutto del perfetto equilibrio fra natura e opera dell’uomo, dove nei primi anni del 1300 il senese Bernardo Tolomei ha voluto riformare l’ordine benedettino non modificandone la Regola, ma riformandone alcuni aspetti che rischiavano di trasformare le abbazie in luoghi di potere: l’abate non avrebbe più tenuto la sua carica a vita, ma ogni sei anni i monaci avrebbero proceduto a una nuova elezione; anche la stabilitas che legava i benedettini per sempre a un unico luogo veniva limitata, proprio per evitare un eccessivo radicamento. Frate Lorenzo, il monaco foresterario, con la veste e la cocolla bianca, ci accoglie nella foresteria con un sorriso aperto e cordiale, facendoci subito sentire a casa nostra. Camere linde, confortevoli, affacciate sul verde e sulla chiesa, naturalmente la biblioteca fornita di libri e riviste accessibile a tutte le ore, macchinette per bevande calde e fredde. Ci viene consegnato il calendario con le ore delle preghiere, precedute, ci viene spiegato, dal suono della campana cinque minuti prima; il canto è rigorosamente il gregoriano. Il giorno dopo è l’11 luglio, festività di san Benedetto… e la festa qui comincia molto presto, durante le lodi dell’alba! Un giovane novizio pronuncerà i voti temporanei: prima però l’abate annuncerà alla comunità il nome che è sua facoltà scegliere. Anche noi, assieme a tutti, partecipiamo all’attesa. La scelta ci piace: il nuovo monaco sarà padre Gabriele. La gioia è condivisa da tutti. La sorpresa maggiore, però, ci attende alla sera. Reduci dalla passeggiata serale fra le Crete senesi illuminate da una splendida luna, sentiamo suoni inconsueti nel silenzioso bosco di cipressi. Ci avviciniamo curiose: un gruppo di giovani monaci fa festa, cantando allegramente in cerchio – e non sono canzoni religiose – in un girotondo pieno di sorrisi e di una gioia quasi fanciullesca. Al centro, divertito e partecipe, c’è Padre Gabriele. Facciamo piano, non vogliamo disturbare questo momento “magico”. Però, un po’ lontane, anche noi cominciamo a canticchiare le stesse canzoni, pian pianino, per non turbare l’atmosfera. La gioia è contagiosa! Ripenso a questo, mentre, di ritorno dall’eremo, rientro nella splendida foresteria di Camaldoli, affacciata su un chiostro eretto pochi anni dopo il Mille, che conserva tutta la solidità e la stabilità di quei tempi difficili, quando il monastero era una fortezza in grado di offrire a tutti protezione e sicurezza. Mi aspetta la cena con i commensali che ho conosciuto la sera prima e, condividendo le squisite pagnotte di pane toscano e l’ottimo vino rosso Borbotto dei monaci, inevitabilmente anch’io ascolto e partecipo. Ci saranno i due simpatici Lorenzo e Maria Grazia di Parma, che mi consiglieranno altri sentieri da percorrere; ci sarà Livia, ballerina classica della scuola di Liliana Cosi, che si è concessa pochi giorni di silenzio per poi tornare ad assistere la mamma malata di Alzheimer; c’è Daniel, francese, con un cognome importante nel mondo della cultura, geologo a Parigi, lì per un corso di ebraico, perché, confida in perfetto italiano, l’arabo l’ha già imparato in Sudan, scavando per cercare le miniere d’oro nubiane degli antichi faraoni. Si finisce con un brindisi e tanti sorrisi: cin cin in onore di san Benedetto e san Romualdo, fondatore della comunità di Camaldoli!
Chiara Magaraggia